giovedì 24 ottobre 2013

centocinquantacinque 155

Deambulo nella mia miseria, compiacendomi, forse. Di questa forza di non essere che mi distoglie da me, e non mi fa essere. Visto, vissuto, cercato, reclamato da nessuno, o da chi ti aspetteresti. Che ti solleciti e muova la speranza. Che vi sia speranza e il rapporto non debba essere inevitabilmente accettato per quello che è. Nei nostri fallimenti. Dove la vita ci ha disegnato orientato e allontanandoci, l'uno dall'altro. Sto nella mia miseria. Con accenni interiori d'insoddisfazione, e il nefasto orrore, che ogni mio orrore, sia apertamente svelato dalla disperazione che conservo libera, in me. Soprattutto. Quando sono esanime. Esausto d'imprecare in solitudine un aiuto che pare non servire, sopportando che quell'aiuto non giunga, e non giungerà. Inaspettato. Ma sempre ordinato e come si deve: allo stesso orario. Da chi afferma, di volerti bene. In quella solitudine in cui deambuli raccattando le tue miserie. Tue e di nessun'altro. Poiché, non vi è nessuno dove deambulo qui, nella mia miseria. Di silenzio. Con l'osso duro del pomo di Adamo, e gli occhi stretti di veleno, accesi in piena calma. Dentro di me. Che attendo d'essere amato all'ora esatta. Come un'abitudine messa lì da qualcuno, o presente per una ricorrenza;  mentre deambulo. Migliorando. Piano. Meno di come credo. Meno di anni fa. E andrei più in la. Ma non mi fido delle mie capacità. E allora attendo di essere amato all'ora esatta. Lei sa, che in fondo guarirò lo stesso: amore esatto o inesatto che sia. E sarò guarito. Quando tornerò ad essere come prima. Indolente sgarbato a sprazzi. Lunatico. Allora, si sarò guarito. E forse non avrò bisogno di essere amato: ma per ora si. E deambulo nella mia miseria in solitudine, compiacendomi forse; di questa forza di non essere che mi distoglie da me, e non mi fa essere. Ma non ho nient'altro che questo: pensare di non essere per immaginar l'amore che mi accalori il cuore.  

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