martedì 20 maggio 2014

trecentodiciassette


- bring the action -


La perla piatta al lobo nero che transita; gli occhiali da sole immobili sulla testa calva; il cappello da pescatore color senape sui capelli brizzolati; la maglia obliqua sulle spalle femminili che scompaiono camminando dietro un angolo; dalle immagini televisive il giocatore di golf colpisce il pallino; chi da un orecchio gli pende il filo d'un auricolare e dal collo gli entra sotto la t-shirt gialla; gli occhiali da sole sul volto inespressivo; allo sportello numero 3 servono il numero A61; al numero 6 il B40; al numero 9 il C34; al numero 5 il B38; al numero 8 il C33; al numero 2 il A51; volto lo sguardo dal tabellone digitale e osservo le immagini della televisione; scorrono le icone pop del nostro tempo; Cassius Clay ritratto in una foto; ero bambino quando saliva sul ring: combatteva e sentivo di essere innamorato di un Dio; alcune immagini dei Beatles: mia nonna li nominava come fosse una parola latina e mi diceva che portavo i capelli lunghi come loro; guardo il mio biglietto è il B65; la tipa che siede davanti a me indossa un maglione color latte aderente e guarda le stesse immagini dei Beatles; la donna di colore entra col passeggino, la sorellina dietro ha il viso contrariato; la donna si ferma guardando il tabellone digitale si piega facendo vedere il numero alla bambina che lo guarda: il B79; per chiedere la disoccupazione la donna dell'Inps indica all'extra comunitario lo sportello numero 8 oppure il numero 9 e se ne va; nonostante ci siano molte persone in attesa c'è un silenzio educato; qualcuno sorride ai pianti che provengono dal passeggino: il neonato si è svegliato; la donna dell'Inps togliendo ogni imbarazzo dovuto al dubbio interviene tra le persone che entrano indicando loro dove debbono andare, a chi rivolgersi in base alla necessità; seduti di fianco due sconosciuti che prima s'ignoravano si sono messi a chiacchierare; la donna ha il capo coperto da un foulard e indossa un cappotto elegante per una bella giornata di caldo autunnale; l'uomo seduto col viso da intellettuale dietro gli occhiali da vista guarda la cartellina di cartone bluette aperta sulle ginocchia; la donna bionda che lo accompagna ha degli occhiali alla moda una camicia in lino color giallo acceso un foulard fantasia indiana rosso sfumato d'arancio; gli parla all'orecchio; la donna di colore col neonato e la bimba esce dalla sala d'attesa: l'hanno servita; il telegiornale mostra le immagini di un fotografo che voleva diventare batterista jazz; alcuni si alzano lasciando posti liberi a sedere; il distributore delle bevande calde è in angolo all'entrata, quello dell'acqua gli è di fianco: prendo una mezza di minerale; la ragazza giovane col borsone a tracolla entra nella sala scatta una foto ne scatta un'altra, prosegue camminando lungo il corridoio con una persona maschile il quale con reverenza professionale la segue; ripassano entrambi mentre la ragazza cerca d'infilare la macchina fotografica nel borsone; la donna giovane dalle forme prosperose ha il volto di chi è nativo dello Sri Lanka; è sensuale e serenamente occidentale parla al cellulare; la guardia giurata è una donna con i glutei che si fan guardare;  qualcuno ha lasciato la porta dell'entrata aperta: entra aria fresca e fumo di sigaretta. Torno a casa in automobile ascoltando il pezzo musicale che ha scelto mio figlio alla radio; il refrain  continuamente dice <<...bring the action...bring the action...bring the action...>>.                    

domenica 18 maggio 2014

trecentosedici


- Ratòn e Ludmilla -


l'uomo mugolava nudo. Divincolandosi ad ogni frustata tentando di scansarle inutilmente col bacino; le intuiva aspettandosi il dolore nella carne: la donna gli si avvicinò. L'uomo sentì masturbarsi da una mano esile e il calore delle cosce femminili avvicinarsi; in quel avvolgerlo sentì inghiottirsi dentro. Ritmicamente lei sopra. Si allontanò terminando bruscamente l'andamento del piacere innestato all'uomo. Riprese a frustarlo. Di nuovo gli si avvicinò, gli stimolò il pene con la bocca. L'uomo accasciò la testa da un lato. La donna s'interruppe. I dannati che osservavano la scena dietro il muro di plexiglass videro in un angolo della stanza alzarsi in piedi l'angelo. Col pastrano color porpora gli stivali di serpente; lo videro avvicinarsi percorrendo lentamente quei pochi passi che lo distanziavano tra sè e il cadavere sul letto. Ratòn si avvicinò. Allungò la mano per sincerarsi della morte. Si volse verso Ludmilla che era rimasta immobile con la frusta in mano le disse <<..lo rifai...poi scegli uno di loro...>>: guardando il muro di plexiglass. I dannati videro Ludmilla aprire la porta e andarsene. Ratòn l'angelo con le ali ripiegate che sbucavano dal mantello, si piegò al letto per far risorgere il corpo del dannato.   
       

sabato 17 maggio 2014

trecentoquindici


 - LSD -

La giovane gli compare davanti mentre è al lavoro. Fuente nel fermarsi spegne il motore togliendosi i tappi dalle orecchie per udire  le parole che la donna gli rivolge nel chiedergli un passaggio. Con un sorriso acconsente di portarla al primo distributore per riempire la tanica di carburante. La donna nel salire mostra modestia e abbondanza in tutta la sua delicata avvenenza, mostrandosi serena liberata dalla piccola angoscia del contrattempo <<...ci sono troppi camionisti in giro...chissà dove mi portano se salgo con uno di loro...e allora ho chiesto a te...>> Fuente continua a sorridere e sentendola amorevole la cura dietro le proprie parole e il proprio sguardo. La ragazza una volta accomodata dolcemente si scopre un seno per allattare il bambino. Fuente pensa che il tratto di strada da percorrere sia distante e guardandola distrattamente, sente di essere percorso dalle vibrazioni che gli salgono provenire dalle ruote. La donna allattando ascolta annuendo alle parole di Fuente e prima di scendere al distributore, nasconde il seno dietro i bottoni della camicia porgendogli il bambino in braccio. Scesa lascia la portiera aperta  andando incontro al benzinaio. Con tale eleganza e bellezza che chiunque in quel momento al distributore rimane immobile non pensando a nulla tantomeno a se stesso e a dove egli si possa trovare. Il più giovane dei due benzinai si avvicina a Fuente <<...posso venire a lavorare con te che qui delle donne come questa non ne passano mai ?... >>  La donna e Fuente riprendono la via del ritorno. Fuente si ferma. La donna scende avvicinandosi alla propria vettura. Fuente vuota la tanica di carburante nel serbatoio. I due si salutano alzando contemporaneamente le braccia tra il traffico di veicoli tra loro; i quali sfrecciano scendendo o salendo dal ponte.         

domenica 11 maggio 2014

trecentoquattordici



 - la strana abitudine di andare in chiesa -


Ultimamente ogni chiesa in cui vado S.Chiara, S.Giuseppe o S.Francesco è piantonata da un negro davanti la porta che fa l'elemosina. L'altro giorno parcheggio davanti S.Chiara, quando vedo sbucare il solito negro che precedendomi si apposta sulla porta: cioè non presso la porta in modo che tu, fedele, lo possa ignorare stando nel giusto e più che lecito peccato veniale che non pesa alla coscienza. No. Il Negro mica è scemo: si è perfezionato nel procacciare affari dai fedeli che se lo trovano sulla porta della chiesa come se fosse l'uomo vitruviano col cappello da baseball NY: o gli fai l'elemosina oppure ti scordi di entrare e pregare la Sagrada Familia o i vari santi aficionados. Il negro da lontano ha l'aria inflessibile quindi è inutile provarci pensando di passarla liscia. Un euro glielo devi lasciare; e quando se lo vede sul palmo ti ringrazia con soddisfazione con un buon augurio; viceversa; sul palmo se si vede cinquanta centesimi già non và bene e senti che ti guarda immalinconito mentre entri in chiesa col male augurio che non ti mette a tuo agio per il raccoglimento. E gli dai l'euro. Però mica sempre c'hai voglia di scucir dei soldi per entrare in chiesa. Inoltre questi negri sembrano così impudenti e propositivi nel procacciare affari dai fedeli, che c'è da scommettere che nel loro perfezionarsi a ricevere l'elemosina aggiungeranno servizi come maschere accompagnandoti dall'entrata all'inginocchiatoio; sciegliendo per te il banco più vicino alla tua sensibilità di fedele orante ( sbrigativo, semicosciente, ipnotizzato, filosofo, ascensionale, intenso, vediamo chi c'è, se c'è il prete mi confesso, un cero alla Madonna e me ne vado, abitudinario, lieve con il mondo, arredamento umano, concentrato, sofferente, mistico dallo sguardo decontestualizzato, ex rivoluzionario in conversione intellettuale, con aspettative di salute, di prosperità, di numeri per il lotto ) o nell'aiutare il fedele all'accensione molteplice di ceri con l'accendino, o reggendogli il libro dei salmi per cantare durante il vespro, oppure umettandogli le pagine per seguir la messa di compieta, oppure cantando la messa al posto del fedele nel caso lo stesso fedele sia impossibilitato da una raucedine fastidiosa; andare a messa al posto del fedele è un servizio non ancora in previsione ma fa parte di una piattaforma da perfezionare. In ogni caso tutti questi negri davanti alle chiese sono fastidiosi e disincentivanti per il fedele che si vuole accostare sinceramente a Dio. Di fronte a tutto questo: ho un problema di tasca e di coscenza. E dunque prego chiedendo come mi devo comportare; esortando Dio ad una risposta che possa orientare, facendogli una domanda non diretta, che conosco le Sue risposte dirette e non mi piacciono mai, ma elusiva che possa incontrare i miei favori e gli dico. - Ci sono talmente tanti negri davanti alle chiese che sembrano sin pagati dal cielo;  Dio non risponde, mi risponde Gesù il Nazareno. << ...la risposta è nella domanda !... >>.
  

giovedì 8 maggio 2014

trecentotredici


 - Budapest -     3 / 2001


Il treno dopo aver varcato i vari confini entra in Ungheria. I vagoni, le locomotive di questa stazione che stiamo percorrendo; laggiù inefficienti,  antiquati e in contrasto con la vivacità dei colori con cui si contraddistinguono, sono dimenticati tra i binari. Il paesaggio ha qualcosa di desolante che pare non giungere dalle cose depresse che sto vedendo e che si possono incontrare, ma direttamente dalla coscienza di ogni uomo, che di qui passa o abbia memoria di questo luogo dimenticato che non conosco; dove il tempo sotto lo sguardo di chiunque collassa su di sè non muovendosi nè avanti nè indietro. Le case che vedo sono circondate dalla staccionata in legno, umili e basse si ergono solitarie e sbilenche a volte spingendosi dal basso verso l'altro rimanendo in equilibrio sulla struttura su cui sono state ideate e costruite. La compassione mi è vicina, su questo treno mentre la velocità aumenta trattengo il ricordo di ciò che vedo tra le lacrime che non mi scendono dagli occhi fermadosi sotto la luce della patina limpida  del mio sguardo celebrale. E la campagna è selvaggia brughiera che ricorda cavalli allo stato brado che immagino se non li vedo; mentre il suono monotono del susseguirsi delle rotaie su cui il treno rotola nello scivolare assomiglia al disco roteante dell'affettatrice sul metallo. Il doganiere mi controlla i documenti e in lingua italiana mi chiede la ragione della mia visita: gli dico per turismo. Il tipo che ho di fronte nello scompartimento mi sta raccontando che si è innamorato di una ragazza di Budapest, e che sta andando a conoscere i genitori di lei. Probabilmente mi parla per sciogliere la tensione dell'incontro. Il treno quando entrerà nella ragnatela di binari prima della stazione di Budapest rallenterà e da alcune giacche sdrucide indossate da zingari compariranno le coppie di mani con cui apriranno gli sportelli dei vagoni scendendo e raggiungendo immediatamente in corsa la velocità del treno da cui scendono, per non inciampare rovinosamente tra i binari. Dal mio finestrino li vedo correre affannosamente, mentre un ragazzo in piedi nello scompartimento spiega tranquillamente ad alta voce, chi essi siano, e che cosa andrebbero incontro se la polizia ferroviaria li intercettasse all'interno della stazione, con qualcosa di trafugato a qualche turista. La stazione che vedo è enorme coperta da una sorta di visiera a conchiglia opaca in vetroresina o forse vetro; dove termina la stazione sui lati, alcune abitazioni hanno delle voragini circolari sui tetti, e una parte dei muri portanti crollati. Qualcuno asserisce che sono l'effetto dovuto ai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Tra una decina di anni leggerò un romanzo d'uno scrittore semita  a proposito della condizione della comunità ebrea a Budapest durante la deportazione. A quella lettura associerò l'immagine sempre; che avevo veduto al mio entrare col treno in stazione a Budapest. Voragini circolari sui tetti di alcune abitazioni e muri crollati. Il rumore degli scambi ferroviari; il sussulto repentino del vagone che cambia direzione. Tengo in grembo lo zaino che ho con me. Stanco guardo dai finestrini i binari e penso agli zingari che correvano lungo i binari; effettivamente ho la percezione che qualcuno di loro abbia tentato di trafugarmi lo zaino mentre mi ero appisolato. Sedutosi quasi di fronte; si era avvicinato conquistandosi strategicamente centimetri vedendomi sonnecchiare abbracciato allo zaino in grembo; poi ad un certo punto apro gli occhi, non c'era più. Il binario dove si ferma il treno è centrale e in stazione rimbomba l'eco impastato che ne annuncia l'arrivo. Apro il finestrino: vedo il ragazzo che immediatamente scende incontrando delle persone sorridenti e una ragazza che lo bacia. Prima che svanisca tra la calca di persone che scendono dalle carrozze del treno; lo riconosco come quello che nello scompartimento parlandomi mi preannunciava l'incontro con i genitori della propria ragazza. Mi avvio verso l'uscita della stazione immettendomi con fastidio tra la folla, pensando un po' smarrito tra tutte quelle persone che deviano chi da una parte chi dall'altra che devo cercare una sistemazione. Scendo le scale avviandomi nel sottopassaggio dove si può prendere la metropolitana. La miseria che vedo non è manifesta e non si focalizza nettamente come la desolazione che avevo percepito in treno al mio oltrepassare il confine. E' più tollerabile nella sua consuetudine mescolata in ciascuno dignitosamente che pare eccezione che non è; in questo degrado che non è; salvato dal decoro e dall'umiltà del sapere: il quale tutto mitiga con l'ausilio della città che nell'imporsi intelligentemente maestosa si sviluppa quando si esce dal pesante vortice di persone che gravitano in stazione. E uscito ritrovo gli occhi nuovi presso il centro della città con il viso illuminato dal tiepido sole. Dove i tram colmi di persone tranquille e indaffarate nei loro pensieri si muovono attraversandola. Non caotica, piuttosto effervescente, sebbene a quest'ora del mattino solo il sole da cui mi sento riscaldato proponga l'effervescenza che percepisco, mentre le persone ancora sonnolenti nelle menti indirizzano il proprio corpo nell'abitudinaria destinazione. Il tram alla fermata: di là c'è la metropolitana, di là il Danubio scorre possente sotto i ponti che l'attraversano. Scendo in Vaci utca: mi fermo a fare colazione.                                 

mercoledì 7 maggio 2014

trecentododici


-  parco pubblico -

nel concetto
 non invecchio; la
schiena dura d'inverno è soffice
d'estate; rigogliosa di nascite al
 gioco; a schiamazzi le creature
su di me; chi siede e legge chi
chiacchiera con l'amico;
chi correndo in tuta 
chi a perdifiato
chi baciando
ama; chi
ascolta il 
pianto 
dopo la caduta e
 affettuosamente rincuora
il capo accarezzando; chi  al
pallone ci gioca col maglione 
a far da palo; chi sull'altalena 
non ha più l'età e chi non ce l'ha
ancora  e scendendo piange:
il futuro come salvifica
eccezione.

domenica 4 maggio 2014

trecentoundici


- visa -  

visto 
dalla 
mia altezza:
bassezza di gomito
Dio è     un      lusso
che non
ci
                         si può                         
sempre
 permettere.
 
                                       Di qua                è l'aldilà                                        
    
e le labbra    
son sbrecciate   
  di  
fiori recisi anzitempo 
o sotto la lingua marciti a
racemo;  tra i repentini rovesci
del quotidiano, gl'innumerevoli 
amanti sono disposti ad amare tra
le cosce la musa e la luna: che respiri
o non respiri con una strisciata di bancomat
tutto si 
     resuscita.       
                  

venerdì 2 maggio 2014

trecentodieci


 - la preghiera di Aaron Groppo -


La vita di Aaron Groppo era piena di angherie, ingiustizie, tradimenti, sarcasmo, ironie, dileggi. Si presentò in chiesa. Vestito di tutto punto. A fare che? Per rivolgere alla Madonna a Gesù le sue richieste di equità; e se ci fosse stato qualche santo intermediario sarebbe stato meglio, pensò Aaron Groppo, che conosceva la vita e i suoi meandri mefitici; certamente sarebbe stato più efficace, come cercar lavoro e presentarsi ad un'azienda col curriculum firmato dal presidente della repubblica <<...obtorto collo oppure no...ti assumono alla veloce...>>. Aaron Groppo si predispose al meglio per quell'udienza, cacciando da sè: ogni vizio, ogni blasfemia, ogni lussuria, ogni rapporto carnale, smise persino di concedersi un bicchiere di vino rosso, si fece una sauna, smise di masturbarsi. Rimase puro. Col viso duro rivolto al cielo in tono di supplica. Fece persino l'elemosina, rara costumanza per Aaron Groppo, che vedeva nel poverello davanti la chiesa lo sconfitto da redarguire e da incitare piuttosto, trovandolo poco propositivo con quella manina tesa e implorante nel chiedere l'obolo. E prima di entrare in chiesa fece l'elemosina senza dire nulla a uno col braccetto teso e diede a quella manina tesa una banconota da 10 euro: santo cielo - si disse tra sè Aaron Groppo - gliene avrei dati meno ma il povero non ha da scambiare ! e allora che faccio ? vado in chiesa dalla Sagrada Familia chiedendo giustizia che c'ho un sacco di roba da chiedere: mi presento da taccagno ? mi metto a discutere? do l'elemosina e chiedo il resto ? E' un brutto vedere. E' un brutto presentarsi. Se arriva all'orecchio della Sagrada Familia mi danno una pedata in culo e arrivederci . Aaraon Groppo allungò la banconota da 10 euro dell'elemosina: entrò in chiesa. Col capo chino, mesto, ossequioso, raggiunse l'icona della Madonna col bambino in braccio, s'inginocchiò, pregò le sue richieste. Tutto avvenne nel massimo rigore, compunzione, commozione. Aaron Groppo si alzò beato, lasciò l'inginocchiatoio ad un altro fedele, si fece il segno di croce e uscì. Una volta uscito, la risposta del cielo, alle sue richieste non si fecero attendere e lo intercettarono immediatamente con una visione ... Aaron Groppo vedeva l'hangar con l'elicottero parcheggiato, il Suv in uno spiazzo, la compagnia di una bellissima donna ai bordi di una piscina, una ventina di guardie del corpo nei vari punti del parco, la cameriera che serviva ostriche e vino bianco agli ospiti, e i sette figli che giocavano nel prato tra risate e capriole, chiamandolo papà vieni anche tu, poi vide un'altra donna altrettanto bella di quella con cui era, che era la sua amante, la cameriera gli portò un drink, Aaron Groppo capì nel corso della visione che la moglie stava intrattenendo gli ospiti sulla porta di casa e che la donna che aveva vicino era un'altra amante...Aaron Groppo sorrise al cielo per quella visione profetica che gli aveva inviato; uscì dalla chiesa, percorse un tratto di strada, svoltò attraversò un passaggio pedonale, una vettura lo investì. Aaron Groppo morì. Salì in cielo. Arrivò davanti a Pietro, lo superò adirato, entrò in Paradiso furente come una bestia ferita, cercò qualcuno della Sagrada Familia per chiedere perchè avesse ottenuto l'ennesima ingiustizia nonostante le sue preghiere. Aaron Groppo si trovò di fronte a Gesù detto il Nazareno  <<... perchè mi hai fatto morire...dopo che mi avevi inviato una visione in 3 D spettacolare con me con le donne con i figli la piscina e compagnia bella?...>> Gesù detto il Nazareno scelse le parole giuste e rispose <<...ci siamo sbagliati nella tempistica dell'invio...ti abbiamo inviato la visione sbagliata...non era per te...ma per quell'altro fedele che hai incrociato nell'uscire...per te c'era la visione col cartello a lettere cubitali con scritto: - quando esci dalla chiesa non svoltare a destra che t'investono -...>>.                    

giovedì 1 maggio 2014

trecentonove

 Porto Vecchio  ( Corsica )     11 / 7 / 2010

Il nostro ristorante preferito è a quota ottocento metri. In salita poco dopo una curva sotto il porticato in legno. Una fontana all'angolo nella nicchia di sassi lo precede. Lì sopra sostiamo ad una certa ora della sera, anticipandola a pomeridiana se le giornate sulle spiaggie sono assolate e non ventilate. Ci alziamo dalla sabbia percorriamo la distanza di qualche chilometro che ci separa dalla collina. Amiamo la frescura dell'altitudine. Assopiamo docilmente i pensieri connotandoli di piacere e svago; sul tavolo di marmo stiamo in silenzio. A volte guardandoci come a delinerci qualcosa credendo di aver capito un accenno l'uno dell'altro oppure sono solo sguardi d'incomprensione tra due persone che pensano di conoscersi. Io la guardo perchè è lei; non so lei; non me lo chiedo quando intravedo l'abitudine. Volgiamo la testa attorno guardando dal tavolo l'andirivieni di ciclisti e camminatori sulla strada che passano per raggiungere il lago d'altura poco più avanti. Lo sfondo è del mare laggiù dopo il digradare della vegetazione collinare e la pianura. Nel tavolo di fianco a noi vi è una famiglia di lingua inglese che mangia, poco più in la una coppia di ragazzi tedeschi. Un cane annusa tra i tavoli scondinzolando. La cameriera con in mano una portata lo scansa delicatamente. Il piatto è per un uomo che pare sia abitudinario se mangia per conto suo. La ragazza in tuta da ciclista si sfila dalla testa la bandana e parlando con l'accento americano agli altri ciclisti accosta la bicicletta al muro e s'indirizza verso il ristorante. La guardo dal mio tavolo; nella sua silouette nera attillata salire i pochi scalini in legno della scala. Il glicine s'attorciglia al palo di sostegno del portico. Sul gambo l'ortensia muove con sè le foglie ritrovando costantemente l'equilibrio dopo aver oscillato. Qui seduti al fresco ordiniamo da mangiare. E nel silenzio tra noi, ascolto l'incrociarsi di lingue che non conosco accendendomi una sigaretta, osservo il rovo di rose che nel loro ciclo si succedono: chi avizzendo chi rinascendo.           

trecentootto

 - la liberazione -

dallo sguardo indolente di uomini poggiati alla ringhiera del terrazzo; dai sessanta euro di gasolio per il rifornimento; dalla chiacchierata con l'amica che parla sottolineando le cose che va dicendo; dalla mia intenzione di vedere il mare racimolando slip, teli da bagno, ciabatte, un po' di cibo, tutto infilato nella sacca; dalla volontà di dedicarmi la giornata; dai pensieri tenui di un amore ormai lontano che non è più; dalla festività Domenicale nel mostrarsi soleggiata di poche parole, nè ombre nè artigli, serena nonostante sia venerdì; da questa bugia innoqua temporale; dalla corsia dell'autostrada, dall'autogrill, dal banco del bar dove una coppia inglese chiacchiera sorseggiando il cappuccino; dalla volontà di un caffè che mi rigeneri i nervi intorpiditi; dai 36, 58, 168 minuti del cartellone digitale che informa i viaggiatori i minuti di attesa al casello delle uscite balneari; dal cambio d'idea e dalla ss9; dalla via del ritorno con la bottiglietta d'acqua tra le mani e l'ultimo sorso per finirla: venivo da tutto questo oggi. E ora camminando lascio alle mie spalle alberi ad alto fusto che sgocciolano al sole; il campanile e i suoi rintocchi dell'ora e della mezz'ora addentrandomi nella garzaia; calpesto il tappeto di rami rinsecchiti; ascolto gl'innumerevoli incipit di uccelli sulle fronde: cinguettii, gorgheggi, che leggono lo spartito tra le nubi scure; ai piedi degli alberi, vedo depressioni lacustri e qualche spiazzo verde illuminato; mi siedo su un tronco non muovendomi. Udendo ringiovanire i timpani, la vista, le braccia e la pelle della schiena nuda; la quale scotta quando i raggi millenari mi disegnano la loro forza antica trapassandomi sino al sangue, sino alle ossa, sino a sgranchirmi nei pensieri assorbendomi e introducendomi nel loro vivente rito: sono sacro in questa chiesa.          

trecentosette

 - Feliksana -


Feliksana mi rivede. E se dico << ...buon giorno...>> strabuzza gli occhi sorpresa da tanta educazione cui non è abituata probabilmente; riepilogando la sorpresa nelle caratteristiche che la rendono ostile normalmente; ricalibra abbassando gli occhi modulando le palpebre sulla mezza via - ti vedo non ti vedo, ero distratta, cosa hai detto ? - rimarciando nei pensieri solitari alla velocità eco sostenibile in cui era immersa  nel mattino pre festivo e lavorativo quando è il tuo di turno; e aver controllato dopo quel << buon giorno >> solare e inaspettato proferito da me, la vivacità dei miei occhi. Feliksana nel vigore amaro del trionfo mi sta di fronte inerme di tranquillità celeste con la rotondità del ventre; di qualche mese suppongo forse 3. E non guarda altrove se non ciò che deve espletare per lavoro; controllando per sè col grandangolo del vertice degli occhi il mio fare; svagato e attento a lei; che mi sorveglia privatamente attraverso i sensi ciechi dei sapori femminili; eludendo la partecipazione presente nell'escludersi totalmente, spossata finemente nel portare in grembo quei pochi mesi di vita: mi congeda. E nel congedarmi, come all'entrèe seguo il canovaccio da persona educata a maggior ragione di fronte ad una donna incinta le dico: <<...arrivederla...e auguri a tutti e due !...>> Feliksana alza lo sguardo <<...a tutti e due chi ?...>>  ?  <<...a lei e a il bimbo...!..>>  indicandole il ventre  <<...quale bimbo?... ...non sono mica incinta !?...>>.