venerdì 8 novembre 2013

centottantadue

Ero in tredicesima fila seduto. All'aperto, dietro ad uno schienale dove vi era disegnato un pene, una kappa, un utero. Sul far della sera ancora ignota, vidi le ragazze svoltare l'angolo; prive di pesantezze di sorta, da esse solo il candore trapelava con cui si annaspa nello sguardo illimitato di amori aspirati: nel giovane è lo spirito; pensai. Ero in tredicesima fila. Solingo sul mio scranno color geranio, e senza tappeti di egual tinta sotto i piedi, alla corte di una piazza ossuta e non colma di rifrazioni; se la sera luminosa non spegnendosi ancora cogitava nella sua maturità; e magnifica mi relegava nella parte in ombra in quella tredicesima fila solingo e libero d'affanni di fronte al palcoscenico: senza sconcerto masticavo l'anima gradevole, glabra e priva di peli ingoiati con la lingua mansueta; porsi l'occhio da dietro gli occhiali, volgendo lo sguardo turistico all'insù. Alle impalcature scheletriche, che si ergevano seguendo l'argentina metallica pelle della torre campanaria nel suo getto al cielo; secolare ed intrepido imitando così agghindata, la torre assai più famosa di Babele. Quando nella sua interezza ne colsi l'abbaglio fulmineo, di ogni pedana e lamina rinascente in mille splendori, riflettere le ciglia delle stelle in quell'infrangersi; vedendo tutto ciò stando in tredicesima fila, laggiù solingo a sedere con la testa rivolta al cielo. Osservavo il cappello in metallo coprir la vetta della torre campanaria. E le ragazze minuscole camminare sulla piazza e superarmi: punto seduto a gambe accavallate. Non le scorgevo più, guardandole da lassù.        

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