giovedì 30 novembre 2017

cinquecentoventotto

La giovane ragazza dalla bellezza che svanisce in un baleno ha le gambe ben tornite dal volto fan capolino gli occhi da cerbiatta, mi canzona come si fa con le persone eccentriche, usa una punta di sufficienza, si prende gioco di me per antipatia senza che questa lieve acrimonia la metta in difficoltà di relazione cliente / barista imbastisce doppi sensi rivolta ad altri sfodera umorismo con poca verve a volte elargisce ad un cliente a caso il suo sorriso beffardo null'altro che questo, tutto in sotto traccia alla fine finge educazione, mi avvicino alla cassa per pagare la consumazione con l'animo tranquillo di chi è in santa pace, mi augura la buona giornata mentre vado mi volto le rispondo altrettanto a te.

cinquecentoventisette

Attendo tutta la mattina per ottenere un colloquio con la professoressa. Per avere il colloquio è necessaria la posizione, così la chiamano, che ti viene data per via telematica. Primo secondo terzo ecc. Da perfetto uomo inconsapevole delle cose, non avevo la posizione. Sono scivolato dietro a quelli che questa posizione l'avevano. Poi se ne sarebbe andata. Al chè l'ho fermata in tempo mentre entrava in classe per la lezione. Con reciproca gentilezza ci siamo accordati per un incontro al termine dell'ora. Nonostante la mia indisciplina c'è la necessità di presentarmi al colloquio per mio figlio. A volte non posso fare a meno di notare in me un'idiosincrasia per le procedure. La professoressa si esprime con un forte e simpatico accento inglese.

cinquecentoventisei

Mi siedo, faccio colazione, leggo un saggio sul 68, rifletto su un capitolo che sottolineo, nel riflettere allungo la vista, non mi accorgo di fissare una donna giovane con insistenza seduta davanti al mio tavolino guarda il proprio I-Pad si accorge del mio sguardo. Un uomo maturo, capelli bianchi, barba bianca, crede di capire che la voglia corteggiare con lo sguardo per invitarla ad un'avventura. Guarda l'I-Pad liberando una smorfia che ha sapore di diniego e beffa nei miei confronti. In quell'attimo mi risveglio dalla riflessione: una nuvola di pudore mi si appiccica alla coscienza ricordandomi il lancio della smorfia di lei. La donna di circa 35 anni è seguita da due figli di pressapoco 8 / 10 anni è alta circa 1,70 soprattutto supera abbondantemente i 120 kg distribuiti alla bene e meglio. Mi viene alla mente che per poco danaro uno della mia età si porta a letto una donna giovane fatta meglio.     

domenica 5 novembre 2017

cinquecentoventicinque


 Caracter

arriva lui poi lui col suo passo pensante lo sguardo da maschera scaltra appende la camicia propugna la verità filtrata da un marchingegno nel sentimento dentro cui non si contraddice nel breve periodo
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esuberante sragiona testardo e si commuove col cuore di una donna trovando equilibrio intende a posteriori il peso delle vergate morali non quello delle parole che gli sgusciano al volo dalla bocca
secco d'acqua in volto una corteccia stesa per il viaggio al tempio antropologico disteso suona la melodia del vuoto a perdere gli indumenti ripiegati sulle rive del dolore un vortice di frutta secca  
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è intransigente illiberale quando ama è croce e delizia per ogni donna che consuma  e asseconda le situazioni del tempo elastico ammortizza l'udito recalcitrante tocca ferro il volto del ricordo
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sul nocciolo della questione si presenta a tappe intermedie sale scende ripristina la nuova decadenza in camicia corvina e cravatta vermiglio  lo shiba inu gli ballonzola tra i salici piangenti sfibrati
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toglie la bufera a cuccia sotto il sole il vortice di applausi e foglie in ferro inverte le pupille al diapason innesta lo stelo provvisorio dell'abbecedario palo del telegrafo degusta il vino in valvole da transistor cambia l'aria apre le finestre basculanti
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durante la notte partecipa ad un sogno attivamente. Si guarda allo specchio al mattino la barba il sorriso marpione due ciuffi di capelli in testa avvolti a corna di demonio s'innoltra nella giornata

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se ne va all'ora convenuta sul tratturo biscia d'acqua dietro il vomere a coda di rondine la scia di aironi bianchi lo seguono il canale immoto specchia dal cielo la campana del tempo monosillabico che rintocca 2 X 2 = 4- 4 X 4= 16 e via discorrendo  
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la testa torre di candida armoniosa suona il sangue nell'espressione rovesciata sul panno come una crema di mirtilli siedono i merli all'orecchio dalla parabola nel terzo occhio la coda arricciata danza in supplesse per scaramanzia
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pettina il terreno circostante con in braccio un nugolo di parrucche tolte dall'incrocio in aperta campagna l'antenna dei guai nel viola di un fodero al sole col calcio la pistola dietro il plexiglass 



  

cinquecentoventiquattro



Cielo, sole, stelle, luna, nubi, sicuramente tutto smirurato, ma il futuro è inesorabilmente imprigionato nella foschia. Lo sfondo non produce, non anima, rinchiude, rinserra, svolto entro in chiesa. Non prego un gran chè non leggo il libro aperto sul leggio il segno di croce con l'acqua santa la sensazione di avere la necessità di una catarsi. Il banchetto di iniziativa popolare in cui mi spingo è sotto il portico. Rifletto al pensiero d'uno scrittore che non conosco: quando lo vidi pensai al poeta Robert Frost sebbene Robert Frost sia molto diverso allo scrittore col cappello di paglia in testa cui viene attribuita la frase cui penso e che mi si stampa nella memoria - la persona è sempre in statu nascendi  - condizione d'ogni uomo se lo desidera ma anche se non lo desidera, la vita è continuamente una crescita. Penso ai piccioni in piazza, con la foschia fanno voli brevi, al principio ideatore del mio io che riluce, all'ovale della mia amica dal lucore simile ad una ragazza ritratta da Rembrandt, dell'ovale dell'altra mia amica col lucore Caravaggesco; alcune persone hanno una luce in volto, altre no. Mi fermo ascolto il programma per un attimo coinvolto in ciò che non capisco: in viaggio con l'anima spirituale ora devo usare l'anima psichica per concentrarmi. Nella realtà cerco di capire non riesco ad essere coinvolto a pieno da un progetto politico; mi spingo più in qua, faccio domande, l'interlocutrice è iper attiva convincente rischio di essere sommerso da un vortice parole uragano: zavorro me stesso, lancio qualche si, annuisco, capisco: di dovermi difendere senza fervore con idee che dormono in me nel più profondo non ho la voglia lo spirito il desiderio di manifestare il mio credo politico ho più la necessità d'introitare piuttosto di esternare; dall'angolo mi compare il pensiero dell'abitudine che mi redarguisce facendomi fretta da non poter rinviare nonostante il turbinio di umanità della donna. La scelta della briosc, davanti alla vetrinetta, integrale col miele un bicchiere d'acqua, un caffè in tazza grande, le cose sparpagliate sul tavolo, il panorama aritmetico personale. Qualche mosca atterra sul tavolo, ispeziona la briosc, s'invola, infastidisce, insiste, va viene, cerco di colpirla, fugge, irriverente, mi atterra sul vertice dell'orecchio. Di fronte a me il tipo legge il giornale, quello con la faccia da albanese digita al cellulare, costui col parrucchino le occhiaie prende il caffè: due colpi alla bustina dello zucchero all'angolo del tavolo strappa la sommità la rovescia nella tazzina mescola alza la tazzina alla bocca, ingurgita, si alza trova il giornale, come si siede di nuovo è assorbito dall'ignoto.         

cinquecentoventitre


- Un nulla di fatto -

Il tipo indossa la giacca di velluto color testa di moro pelato col basco in tessuto invernale lo stesso colore della giacca porta occhialini tondi alla Silvio Pellico; i pantaloni li ha tinta senape dal tono estivo che richiama i campi di girasoli in centro Italia quelli che ho visto quest'estate in una giornata nuvolosa. Le scarpe nere paiono acquistate al mercato del giovedì al banco sotto l'orologio, il naso l'ha bitorzoluto da fumetto degli anni 70 come quel personaggio che si chiamava Peter Paper: gli assomiglia. L'insieme è da negoziante avveduto incline all'ascolto con un patrimonio di idee precise dell'enciclopedia sul mobile in sala da pranzo. Cliente abituale con fare anonimo discreto fluttua tra un passo e l'altro si avvicina comunica con un filo di voce che non percepisco sorride alla ragazza che gli sorride; la t-shirt bianca un'immagine caraibica la scritta Inglese out of town una fascia vistosa alla testa una sorta di fazzoletto arrotolato l'insieme ricorda un'ananas fuori stagione. Lei apre il cassetto della cassa gli dà il resto sul palmo della mano, lui se lo mette in tasca, saluta, si volta, se ne và.      

lunedì 30 ottobre 2017

cinquecentoventidue

Entro; la ragazza seduta al tavolino ha una gamba accavallata ed è intenta col piede in mano a farsi il pedicure. La concentrazione è maniacale sulle forbicine: taglia l'unghia sull'alluce. Con la lingua di fuori alza la testa guarda non mi vede; non si deconcentra nel vuoto riabbassa la testa. Sibila huuu tra i denti non posso fare a meno di notare che durante lo sforzo nell'accavallare la gamba in cui stringe il piede fuoriesce mezzo labbro di pube un ciuffetto di peli col piglio stolido di chi normalmente non vede nè luce nè prende aria. Provata dallo sforzo, si alza. Distolgo lo sguardo alla ricerca del barista. Poggia sul tavolino le forbicine. Con l'espressione svogliata si avvia al banco si trascina le gambe, mi guarda non celando fastidio mastica un non so che tra i denti, scazzata mi fa. Cosa prendi ?   

cinquecevent'uno



Il cinese vestito di bianco passa sul marciapiede. Il cinese vestito in nero porge l'orecchio al tipo con le meche e i ricci della permanente. Il burbero palestrato collo taurino volto scolpito nell'abbronzatura di campagna, mi guarda con l'espressione torva. Mi riguarda con l'espressione super torva non abbasso lo sguardo per capire se è normale oppure no pare sia disturbato nella cabeza poi abbassa lo sguardo come dovesse cercare le scarpe e accompagnarle in bagno. Sto serio con la faccia da culo mai vista. Il gin tonic questa sera è ottimo. L'altra sera volevo ubriacarmi al quarto gin tonic mi ricordavo ancora tutto: dove avevo parcheggiato come mi chiamo e così via. Mi sono alzato al cinese barman gli ho detto il gin tonic si fa col gin non solo col ghiaccio. Mi ha risposto si con quel sorriso che non capisci se ti sfotte o non gliene fotte, vabbè. Il gruppo di soggetti dal volto caucasico tipo film di Kusturiza stanno parlando talmente sottovoce che sulle prime penso siano un gruppo di sordi, poi ordinano diventano chiassosi in maniera sempre discreta. Bevono più bevono più parlano intercalando gestualità e concetti al ralenty alzando il tono la voce rimane nei decibel consentiti. La tizia tutto tette culo femmina del burbero con l'espressione super torva, è amabile sciolta padrona assoluta della scena e del burbero che pare frustrato oltre che idiota. Entra il pazzo del paese messo male in arnese tempo fa non era così. Si siede fa un fischio tutti si girano serio guarda anche lui chi è stato a fischiare. Il cinese barman sta pestando qualcosa nel mortaio alza la testa per il fischio mi guarda interdetto come una civetta sul trespolo.  Un soggetto poco incline all'astemia guarda la scena sullo sgabello scoppia in una risata. Il cinese barman di rincalzo entra in scena col busto nero scivola da dietro il bancone guarda tutti in sala non capendo niente delle dinamiche precedenti, osserva un po', chiede al cinese barman che pesta qualcosa nel mortaio, bofonchiano un qui e là che ne so, torna in cucina. Il pazzo del paese ordina un palloncino di vino come quando si è al circolo. Un nulla di chè è una serata qualunque il gin tonic è veramente ottimo. Il Thackeray è super gin anche se l'Hendrix non lo supera nessuno. Il parvenù zampetta sul fisico da tacchino gli occhi da pesce al quadrato dà un'occchiata distratta di chi vede il mondo da un vetro zigrinato entra si accosta alla cassa paga il conto da sobrio per evitare guai prima di bevere/ bevere alle cinque del mattino è sempre freddo pimpante salma a terra da qualche parte, ma il giorno dopo lo rivedo vivo e non è Cristo risorto: evidentemente sa bere potrebbe suggerire un libro suggestivo su alcolici ed esperienze di premorte. Dà un'altra occhiata zampetta da macchinetta sobria esce dalla porta col piglio da eqqueqqua pirechè e non dalla finestra come l'alcool gli suggerisce a volte. Anche il tizio senza mento con le basette alla Gerd Muller anni 70  le braccia tatuate paga il conto. Quello con la t-shirt con la stampa Stussy si toglie il basco compone un numero di telefono ride. Tunz tunz il pezzo musicale mi piace è un techno stomp voce da negro ritmo fantastico. Lo cerco sul telefonino con Shazan: non si connette. Si materializza uno degli incubi della mia vita del cazzo: ascoltare un pezzo musicale strepitoso non sapere chi lo canta. Per mesi anni rimarrò con il desiderio frustrato di riascoltarlo come quando speri di rivedere quella tipa che ti piace. Diventa un'ossessione. Il cinese esce dalla cucina sparecchia i tavoli, quelli di Kusturiza non sono di Kusturiza ma Italiani del meridione, centro Italia, non capivo il dialetto, mi pareva caucasico, sono ubriachi putridi ridacchiano si baciano con le donne si sorridono perdono il maglione che rimane sulla sedia non si sa di chi sia, stabiliscono che non era di nessuno ed era già li al loro arrivo, poi una volta usciti, il più ubriaco di tutti torna a riprenderselo con la faccia da stordito concentrato non troppo. I due tizi in fondo sembrano i più presenti ma ridono con gli incisivi troppo in vista e i bicchieri sono vuoti ma soprattutto erano già qui quando sono arrivato. La biondina con la testa sorretta dal braccio con l'espressione spleen pare l'unica sobria s'infila in bagno con l'amica. Il tizio con le nike nere i jeans bianchi assomiglia a Ramsete II non fa nulla di speciale, regge la parte. Il gruppo di Kusturiza esce in fila indiana come se fossero sobri ma un po' troppo eccentrici. Il tizio si scaccola il naso mi guarda concentrato su quello che sta rimuovendo non mi vede. Il gruppo di ragastrazzi alticcio si comprende bene con i due marocchini che incontrano col bicchiere di birra in mano discutono del concetto di bere di figa di quello che hanno fatto nella serata, non se lo ricorda nessuno, a parte bevere/ bevere poi non succede nulla di chè eppure scatta un momento ecumenico un boato una risata tutti si abbracciano il più idiota del creato entra sorride si lancia in una battuta umoristica poi racconta che ha distrutto un muretto in una curva  con la macchina è uscito dalla macchina fumante l'ha guardata ed è corso via prima che arrivassero i carabinieri ride della trovata frega un cazzo a nessuno ma lui imperterrito se ne fotte partecipa alla festa abbraccia un marocchino col bicchiere in mano due tre cazzate ridacchia beve si gratta le palle.     

domenica 17 settembre 2017

cinquecentoventi

Il tipo magrebino indossa la felpa color pesca l'aquila sul petto si alza dallo sgabello del bancone del bar scende digrazia strampalata dà un colpo di energia al retro treno dalla propria volontà raccatta un secco e deciso "si và" s'avvia alla porta di uscita laggiù. A metà del viaggio distante tre metri perde la mira della porta di uscita, la vede sfocata, attraversata da ostacoli umanoidi, barcolla vistosamente a bandiera che sventola, si regge ancora rallenta per non affondare con la testa in picchiata schiantarsi a terra con fragore sotto il tavolino di altri magrebini che conversano di fronte ad una serie di bottiglie Heineken vuote le papille gustative della lingua sommerse da lupolo tabacco. I quali guardano con la coda dell'occhio il magrebino vacillare, non rassicura valutano il pericolo, riprendono a farsi gli affari loro. Il magrebino dà una sterzata col ginocchio semi raso terra con un piede scomposto ripiglia il passo da marionetta le braccia ora stese ai fianchi ora avanti in un gesto drammatico espressionista evita un tavolo per un attimo si allunga all'inverosimile come un elastico allunga il braccio lo poggia sulla spalla di uno sconosciuto, precipita fuori come dettato da una spinta di una pedata ricevuta, passa in mezzo a marito e moglie che passeggiano abbracciati, si staccano, lo fanno passare. Un attimo di suspence nei volti dei magrebini dalle Haineken vuote per la sorte del magrebino uscito di gran carriera; e dei coniugi i quali si scansano di nuovo. Il magrebino col volto costernato si ri-precipita dentro. Ha la stessa determinazione con cui è uscito dal bar frettoloso supera ostacoli umanoidi regge traiettorie mirabolanti torna al bancone del bar con la mano si puntella sullo sgabello con l'altra agguanta il bicchiere; torna fuori senza ansia, con più controllo, zavorrato dal bicchiere di birra colmo sul vetro un velo di condensa che rende tutto sbagliato si, ma moralmente giusto.           

cinquecentodiciannove


 - In piscina comunale -

10,80 se voglio il lettino la doccia fredda, se la volessi calda, dovrei aggiungere qualcosa in più. Non ho idea se sia un buon prezzo venire in piscina. Decine d'ombrelloni uguali, pazienza gli ombrelloni. Quando non si ha uno sguardo di amore e comprensione può essere orribile trovarsi in mezzo a tanta gente uguale: in mutande fashion colorate, che sciabatta in lungo in largo sulle cose, tra le cose, che cerca nella sacca qualcosa, oppure si lega i capelli la bella gnocca di un tempo che fu, che fa la doccia fredda con la pressione di un ottagenario prima di entrare in acqua oppure l'azzimato pop che aspetta i piccoli passi della prole alta mezzo metro titubante col pannolone zavorra, quell'altro che con i figliuoli con la faccia da schiaffi torna bagnato dalla piscina, il tizio con i pantaloncini verde carioca e gli occhiali bianchi improbabili non fa nulla di particolare, ci sono i bellissimi / bellissime abbronzati / abbronzate, peccato abbiano la rogna in alcuni punti del corpo, pardon sono tatuaggi. Nessuno sullo sdraio legge, ognuno fa qualcosa tranne leggere, che sia importante no, mi faccio alcune domande cui mi do risposta, anzi no, il tizio tatuaggio sul petto da palestrato, legge delle scartoffie che paiono una tesi, e poi nient'altro, vabbè mica è un sondaggio, però ci faccio caso, del resto al sole non sono mai riuscito a leggere nemmeno io, figurati a chi non piace. La Mannoia alla radio, che cazzo di scaletta, dopo viene Boy George con do you really want to hurt me che non la posso sentire, non la reggo, ci sono canzoni che non sopporto per davvero, Lucio Battisti acqua azzurra acqua chiara con questa torniamo al paleolitico musicale, cioè mi piace Lucio è un camerata, rispetto i camerati, ha sempre scritto belle cose, però col caldo mi piace ascoltare radio Deejay con quel matusalemme stralunato di Albertino che tra un cazzo un altro ha già 60 anni fa ancora il ragazzino, a proposito di acqua azzurra acqua chiara vado a fare un tuffo. L'acqua è veramente azzurra chiara ci sguazzo un po la tipa che fa la figa ce l'ho solo io e non te la do quando vado a comprare le cose nel suo negozio, c'ha un culo che fa provincia però è tonico, gira vicino a quel tipo che pare un vitello da allevamento boh sarà il suo uomo, proprio quello che esce dall'acqua e sputacchia da villano porco. Esco dall'acqua anch'io. Penso a tutti questi radical chic in piscina, razzisti tatuati jet set de stè par di palle della città, sapessero che dietro la siepe della piscina ci sono i prefabbricati con le antenne del campo nomadi. 
       

mercoledì 6 settembre 2017

cinquecentodiciotto

Portava nel cuore le donne con cui aveva fatto l'amore. I gin tonic bevuti li aveva bevuti ne avrebbe bevuti altri. Quando glielo diagnosticarono non si sottopose a terapie, nella vita aveva fatto quel che aveva voluto. Più di ogni altra cosa privilegiava le relazioni umane. Il lusso la ricchezza portavano ambizioni che arrivano a stimolare la deriva morale nel vivere. Affermava con l'esempio l'utilità del riconoscerci nello spirito, fin che ci si riesce; in modo che quando ci saremmo ritrovati eterei nell'aldilà per lo meno non saremmo stati estranei come in terra. 

mercoledì 19 luglio 2017

cinquecentodiciassette



Se ti ami all'eccesso cosa resta all'lterità ? Il nulla di classe avvolto nel plepo ideale ? L'inconsistenza utile d'un copione logoro ? Il volto di chi invecchia nei sensi crollati ? Vivere sotto l'egida della paura: non siamo fratelli usciti dalla stessa sofferenza ?
  

sabato 15 luglio 2017

cinquecentosedici



La bella Inglese nel vestito di quarta su donna di prima, mostra la sua simpatia al limite dell'interesse. Mentre le figlie saltano nella nuvola di purezza e con le racchette in mano rincorrono la pallina col pizzo a cono; mi chiede: have you get a light ?  Le allungo l'accendino con cui può illuminare il cero e la notte a piacimento. Le dico "keep it". Al mattino nel viso magro, occhi in alga marina, col motore acceso sterza, si ferma lovable, mi annuncia il proseguimento: và in giro per l'Italia.  

cinquecentoquindici


- Abbazzia di Montecassino -

Le ragazze polacche si coprono le gambe prima di entrare. La statua di San Benedetto nel chiostro è circondata dalla siepe. Ai muri sotto i porticati lastre marmoree con frasi in latino. Dalla balaustra il panorama in miniatura; la vigna minuta qui sotto col vino in vendita che non è a buon mercato. Le colombe bianche evocano lo Spirito Santo, son prudenti nella coda scomposta ricamo d'un fazzoletto stropicciato, sui gradini; altre sbucano tra le decine di piedi in marmo di balaustre, atterrano sul capo della statua ad ali aperte con frenesia ricercano l'equilibrio.

cinquecentoquattordici


 - Matera -

I camerieri zelanti come difensori arcigni di squadre di calcio, dal sorriso gioviale la stanchezza di mezz'età il primo; orecchino al lobo capelli folti radi al centro da violinista chiacchiera pronta all'uso allo stop: comme vous voulez messieur; l'altro. Taciturni, ascelle nuvola sudata nella camicia, roteano a turno il periplo del tavolo cui mangiamo. Dopo la tagliata, grana rucola una birra media: torno tra i vicoli. Da città degli stenti: Cristo si è fermato a Eboli, alla supremazia architettonica. B.Buozzi la via costruita nel ventennio che congiunge i due rioni dei sassi di Matera. Caveoso / Barisano. Gente nelle piazzette, seduta, a zonzo, piccoli concerti unplugged su sgabelli, l'umanità elegante ai tavoli, la vitalità di vicoli vuoti, silenzi da pentagramma, scorci allacciati al diadema inestricabile chiese, volti, insegne, musica che compare ed emerge al buio della sera al panorama di luci ora calde ora fredde. Scendo i gradini di Sant'Antonio, risalgo il vicolo, la scritta murale dell'innamorato - niente dura per sempre, vuoi essere il mio niente per la vita ? - Dalla piazza del Duomo: il panorama verso il basso mi si presenta ad anfiteatro notturno; un alveare illuminato di minuscole case in pietra una sull'altra.

mercoledì 12 luglio 2017

cinquecentotredici



 Metaponto

Le strade rabberciate con chiazze di bitume, larghe crepe, numerose depressioni, l'oasi del parco archeologico un momento salvifico: soccorre. Curvo, il cartello indica il santuario Apollo di Licio. Il parco archeologico. Nella completa solitudine, passeggiamo tra le rovine il sole a picco. La plateia, l'ekklesiasterion, il tempio di Hera, di Dioniso, Atena, Apollo, Artemis, il sacello d'Apollo Aristeas, Santuario orientale, tombe romane, l'agorà, tempio Ionico, l'architrave, fregi decorati. Non mi và di chiudermi in museo per continuare la visita, mi metto alla ricerca delle tavole palatine. Non ho idea di cosa possano essere, non ho un opuscolo, non ho una guida, seguo le indicazioni in tangenziale. Cartelli sbiaditi più sbiaditi della parola sbiaditi non aiutano; dubbioso supero il sotto ponte pieno d'immondizzia, di fronte alla struttura, sul muro lo stentoreo Antiquarium Metaponto. Nessuno in biglietteria, dietro la palazzina una cancellata, un giardino con alberi, panche, tavoli, giochi per bambini, siepi, oleandri; svetta quello che rimane d'un affascinante tempio Greco. L'entrata principale serrata, l'entrata laterale aperta. C'incamminiamo, riconosco il regista in visita con l'attrice, indossa il Borsalino ecrù, non parla una parola di Italiano, con loro una donna dal volto intelligente. Ammirano osservano, leggono traducono gli accenni storici del luogo, se ne vanno. 

martedì 11 luglio 2017

cinquecentododici


- Gaeta -

 Sull'hotel campeggia l'insegna Gajeta, nella piazzetta assolata il fazzoletto d'ombra ospita il tavolo del rinfresco. Gli invitati hanno, chi la cravatta slacciata, chi la giacca sbottonata, chi l'abito cangiante color piombo appiccicato al busto, alle gambe dal vento che soffia, chi l'abito lungo che si gonfia su tacchi a spillo instabili. La chiesa del porticciolo svetta sul litorale, una più elevata la sovrasta per forma, importanza, non per autenticità. Nello svincolo presso la scogliera il frenetico esserci e scomparire nel traffico; al semaforo il tipo di colore vestito da giocatore di golf non lava i parabrezza delle vetture, chiede direttamente l'elemosina; l'evoluzione è inesorabile, avviene in tutti campi del sapere. Il lungo mare simile a centinaia di altri ha qualche angolo lezioso, qualcun'altro incantevole. Il Vigile Urbano mi consiglia di spostarmi dal parcheggio vietato: ho pagato, ci mettiamo d'accordo. Mangio, guardo il mare, una cartolina a colori vivaci sbiadita dal consueto. Mi fermo al bar, il barista mi fa un pistolotto in sottotraccia mentre mi serve il caffè, per via della sacralità del saluto; lo ascolto, mi accodo, gli dimostro tutta la mia indignazione nei confronti di quei maleducati che non salutano. Pago, me ne vado, lo saluto il doppio. Accendo il quadro, avvio il motore.         

cinquecentoundici


- hic sunt leones -

La tizia non è ricercata nel biondo, il tipo con la barba curata ha i pensieri sulle montagne russe soffre di vertigine simula tranquillità. Mi chiede cosa voglio: la ragazza che ha di fianco dietro il banco è formosa indossa un'abito grigio il volto grossolano beve a collo l'acqua dalla bottiglietta ha stampato in viso l'espressione di chi attende risposta ad una domanda. I due carabinieri sbucano dal bagno con audacia militaresca e presenza scenica, uno inforca gli occhiali da sole, l'altro si allaccia la cintura dei pantaloni. Gli altri due avventori che sembrano del luogo, paiono carabinieri in borghese. Uno ha  un cappello da baseball in testa, l'altro fa il ragazzino con la faccia normale da pensionato indossa una t-shirt a righe verticali, legge il giornale ma si vede lontano un miglio che non si fa gli affari suoi. I due pensionati diciamo cosi, paiono matti, o perlomeno turbati da una monomania, non so cosa me lo faccia pensare; niente, è semplicemente la postura dei pedoni sulla scacchiera della hall di questo bar di periferia. Ricordo la medesima scena in un luogo analogo con persone sui generis. Fu quando entrai al bar di fronte al manicomio - Il barista mi chiede nuovamente cosa voglio, gli dico " un caffè scecherato ". - Fu un'esperienza curiosa, ricordo che uno di questi avventori minacciò una ritorsione alla barista, la quale con una calma serafica sfoderò come da copione una risposta efficace, che il sui generis, accettò senza controbattere, nelle proprie dinamiche mentali, rimanendo zitto, si sedette cercando un angolo nel bar. Un altro sui generis con una giacca di pannetto marrone aveva guardato la sceneggiata con l'espressione torva riprovevole di fatto non intervenendo e non sarebbe mai intervenuto, nello sdegno facendomi comprendere che quella era la sua espressione standard. Il silenzio dopo il diverbio si era appesantito lasciandomi ipnotizzato stranito su queste figure aliene, le quali non erano le uniche in quel bar, ma con mia somma sorpresa riempivano il locale. Mi resi conto che ero capitato in un bar frequentato da sui generis, scriteriati, svitati, forse con istinti omicidi; per un attimo mi sentii perduto se non fossi uscito immediatamente, mi sentii animale in trappola, ma allo stesso tempo ne ero affascinato. I loro volti contorti / spiritati / girovaghi / gemellati al vacuo / all'impossibile / mai sereni sempre profondamente convinti di qualcosa di micro o qualcosa di macro, mi si svelavano vieppiù rimanevo a banco a sorbirmi il mio caffè. I due pensionati che paiono carabinieri, non sono sui generis, evocano la particolarità, in questo caso evocano un momento che avevo completamente perduto nella memoria. La tizia non ricercata nel biondo, siede alla cassa ha il telecomando in mano e cambia il canale di trasmissione. Il DJ con i baffi seduto nello studio ripreso dalle telecamere dice un'ovvietà al microfono. Il carabiniere col volto che non si sviluppa in fuori, ma rimane nell'ovale come una civetta si siede. Quello con gli occhiali da sole, ha un sorriso d'intesa con la tizia non ricercata nel biondo, la quale contraccambia. Tre facce da zingari entrano nel bar. Pago il caffè. La famigliola a colazione all'entrata seduta a tavolino pare sia in preda ad una nevrosi da consumo croissant, ma riesce a parlarsi gutturalmente. L'insegna del bar non l'avevo vista all'entrata, la noto rotta all'uscita, le vetrine sporche rendono il bar una spelonca, di quelle notturne frequentate da tagliagole pendagli da forca con le risse all'ordine del giorno che creano intesa e socializzazione da periferia. Nell'andarmene provo una sensazione di leggerezza. Accendo il quadro.      

cinquecentodieci


- Taranto -

La quantità dozzinale, il pattume in angoli abbandonati, il ponte sul golfo, le innumerevoli cisterne numerate 3035 / 3036 / 3037. Nella rada del porto navi militari, altre mercantili, enormi montacarichi, i tubi rossi di vernice che fuoriescono da terra si sviluppano raso terra, un piccolo volante nero ad ogni giuntura, il non veder volare i gabbiani, solo alte ciminiere di mattoni, gli edifici abbandonati, snodi rotonde astratte: qui probabili, qualche cane spelacchiato sul ciglio della strada i negri dal volto combusto in fila indiana sfiorano il guard- rail. Altri seduti attendono l'autobus sotto la pensilina. La sterpaglia è padrona ovunque. La canicola non impensierisce, il mare una striscia scura in orizzontale compare sui tetti delle abitazioni. L'immancabile refolo del vento sale, disarciona ciò che è leggero, lo sovrappone ad altro, riordina caoticamente il disordine precedente, poi alberi dal tronco annerito dalle fiamme. In questo reticolo di vie, rotonde, lavori in corso, il navigatore continua a consogliarmi la seconda uscita / poi - ricalcolo percorso -.L'indicazione storica sul cartello marrone recita - segui le orme dell'antica Grecia- mi suona ironico. Nel brutto che segue il fatiscente, nel ciarlatano che precede il mediocre, il fiacco, lo sfinito, il deplorevole, al mai colpevole, nell'immunità di chi pensa gretto / ghetto, e realizza peggio, nel socialmente distratto, al popolo umiliato, di questi pesi morti responsabili, mentre guido mi viene alla mente il ricordo d'una lettera letta alla radio, di Pericle " la superiorità di Atene è per la ragione che gli ateniesi sono tutti filosofi e tutti amano il bello ".    

cinquecentonove


  - à la guerre come à la guerre -

Pensi che non conosca, le lusinghe di abbagli che ingessano, il fascino dell'inerte scintillio, l'otturazione della società, la cupa incrinatura dell'io crisalide che pulsa nell'imo, non intraveda, non riesca, non intenda, nessuno soccorre la libertà di altri poiché ciascuno è satrapo, e non sappia dell'inganno: deboli rende forti i torti; oltre traspare il sentimento, s'innalza, separa, conquista verità assolute, l'incertezza si propaga, si dilata, sfiorisce. Non semplicemente uomo donna, ma spirito e amore, oltre il vero, oltre lo scibile. Il senso dell'eternità che ci percuote, ci pervade, ci stupisce, e l'utile mediocre che giace nella turbolenza di una colpa moribonda. 

cinquecent'otto




 - Melting pot -

Percorro la cornice della rosa le spine le riempio di note musicali. Non ho mai aspirato al respiro delle deformità, si amplia sino a raggiungere il confine del mefitico. Il nevischio nella tormenta si dibatte nella bottiglia al sole. Sul tavolo di pizzo il freddo. Sono l'uomo irraggiungibile di cui la storia non parla, l'uomo dalla retta imperfetta come una viscida didascalia, un tralcio tra i raggi brillanti di un'epoca. Vinco l'ibis sacro che svetta sul comignolo del tetto. Se la piazza dal cuore infiammato s'apre a ventagli spirituali la Cattedrale s'adombra di fisicità luce che s'impone nei corpi di noi commensali. Programmiamo a file interminabili di cappotti, in cui ci reggiamo impiccati sulla croce temporale, maniche flosce di vicende che primeggiano su centinaia di cubi di porfido. Chi abbaia nello spirito pragmatico da locusta non presta  attenzione ai piedi in cui deambula, non ode il vento che piega le ragioni, nemmeno dall'altura la vetta che compare dal freddo. Insorge catapulta sino al basso alluce passando per il malleolo stanziale. Per legarsi al Dio migliore il cuoio nelle scarpe è il colpo da biliardo esatto, Akon canta una canzone reggae, la radio dal portico lungo, il tridimensionale disegno riproduce il quarto d'osteria. La cinese che serve in osteria mi saluta con un ciao privo di toni lungo come una settimana di lavoro sottopagata. Chi apre il quotidiano ali di carta legge la carcassa sanguinante d'un bove. La donna col passeggino si ferma. L'elefante della memoria con la proboscide allunga l'asciugamano. Il folle con i calzoni gialli e la camicia rosso fiammante ride alla statua. La melodia della neolingua soprassiede al velo turchese. Al tabacchino non danno il resto di caramelle. Il combattimento dell'amore nel riprincipio declama, ci siamo amati d'una bellezza di cui ne valeva la pena, mio Dio quanto è lunga questa pena. Penso ci ripenso; noi che rammendiamo reti ritinteggiamo lo scafo in controluce entrambi imbrattati di pece nera. La sera poi la notte, lo sguardo del mattino. Il fanciullo dipinge a guazzo la facciata della casa a Madonna che invochiamo: e rivestiti da lenzuola di yuta riponiamo i nostri mesti sentimenti. Ristrutturo il passato per evocare la pace. Come non capire che la fortuna per noi è l'intensità in ogni ruolo, il resto frattaglie prive di compassione. Dalla finestra la donna scorge il gatto annoiato, passa in rassegna le teste degli umani da lassù, sorveglia ogni roditore che saltella e s'infila nella fogna. La via del centro storico contiene nell'umidità l'ombra dell'intera mattina. Sul tavolaccio il taglio del sole è lama mobile con cui divide il chiaro lo scuro. La scalea da cui scende l'apostrofo del castello ha nelle braccia le penne di un color smeraldo e il suono interiore d'una molecola intonata d'eleganza. Il tizio magro nei suoi anni indossa la camicia bianca nell'ovale del volto i baffi, il gilet scuro, il cappotto abbottonato, la bombetta in capo, distratto volge lo sguardo alla sua destra / sinistra di nuovo destra; con agilità compostezza supera la coppia di aritocratici dinnanzi a lui che lentamente scendono al centro della scalea, alza lo sguardo controlla l'ora all'orologio del campanile supera il generale a cavallo al centro della piazza il quale indica la direzione al passato al presente al futuro di cui siamo ignari, tra banchi e tende del mercato scompare. Nel suo passare l'aria dell'ottocento. Dal terrazzo della sinagoga la vista su tutta la piazza. L'uomo dai tetti del portico del grano scatta una fotografia con il banco ottico sul treppiede la tendina scura in cui c'ifila la testa prima del click è nera. Scatta la foto ad Anne Sexton elegante sensuale con le gambe incrociate con Spike Lee negro pieno di ciondoli e un ebreo con la stella tatuata sul braccio, seduti davanti il bar teatro discutono d'inquadrature / poesia confessionale / di rune. Con lo zodiaco dalla sera alla mattina l'estate di Mounsieur Hulot in bicicletta cappello di paglia piccolo per la testa la margherita in bocca si prodiga di sguardi mentre illumina la città sonnecchiosa e pedala per corso Roma. Un banchetto di fronte al comune vende i quadri di un giovane Hitler: nessuno sa che è un affare. Il folle dai calzoni gialli la camicia rossa, si avvicina alla virago vestita in nero, la quale si sente preda lusingata. Cammina sotto i lampioni spenti e pensa: nessun giorno per gli uomini è passato invano al senso tragico dell'esistere. Di luce futurista il brillio che intravedo nel tunnel della pace. Incrocio un ragazzo dall'eccesiva ingiustizia nei tempi che verranno amplia al confine dello scibile lo sgorgare dell'uomo percolato, di cui la storia parla in retta traspare docile. Rivedo un amico di vecchia data ci vediamo ad occhi di distanza sul parlare di un passato remoto. Ordino qualcosa da bere prima di mangiare ci sediamo a tavolino sotto il portico dove tutti passano e vedono. Discutiamo della capacità teconologica di fermare il tempo biologico di ognuno attraverso un'app. dell'orologio della Swach. E ci mettiamo a ridere a crepapelle sulla prima pelle dell'edonismo Reganiano ridicolo come un filosofo clown. Dell'entrata a piedi pari della vecchiezza di ogni maitre a pènser nella nostra mostruosa società divenuti piuttosto maitre a mangèr a bighellonare tra un salotto e l'altro prima di ogni risibile pardon, pietosa, angosciante, bestiale, orribile, strage. Ci mettiamo a ridere a crepapelle. Il mio amico con la barba bianca da uomo di mezza età mi fa sapere che secondo il volgo chi guadagna al di sopra dei 50.000 euro vive pluri-verità presunte, chi vive con meno di quella cifra vive d'una verità assoluta, un'onda d'urto che travolge chiunque. La culla della civiltà lo sa.

      


   

  

cinquecentosette


- Rodi Garganico -

Mi perdo nella notte, tornanti bui, migliaia di ulivi ritorti, le indicazioni stradali mi fanno raggiungere il mare sulle rocce il fragore minaccioso: mi fermo a pochi metri. I limoni gialli nelle cassette nere in vendita sulla strada. Passo il passaggio a livello, la salita, i rapporti della bicicletta slittano sulla corona, utilizzo quello che viene; supero il trattorino che traina il carretto di piastrelle; il tizio che lo guida è di carnagione scura, barba nera, occhiali da sole. Fatico, sudo, mi fermo, tolgo il cappello da sole, mi alleggerisco, allento la cintura, sento la canottiera bagnata. Il tizio sulla montain bike mi parla con la acca aspirata, pedala i dislivelli in zona; la lunga salita che percorriamo ci fa stare zitti. In paese, i preparativi per la festa del patrono, al bancomat mi metto in fila; la spesa: due sporte di frutta pochi euro. La discesa, rientro in camping, Rachele la stella tatuata sul braccio lavora alla reception, saluta, le dico che bisogna faticare per fare la salita e raggiungere il paese.  
  


cinquecentosei


 - La partita -

La tizia chiacchiera col tizio, guardano il video sull'I.Phone. Corpo da pallavolista ricorda Marlene Dietrich, il viso sofferente come un'attrice Francese.  L'ho notata altre volte. Siede, parla al telefono, aspetta qualcuno, col bicchiere in mano. Il tizio robusto con cui chiacchiera attende il momento propizio. Se ne vanno dopo un po', lei nell'avviarsi ha un incedere sensuale. Il cinese col pitt bull al guinzaglio la incrocia. Lei osserva, gli fa una smorfia. Con questo via vai che passa non riesco a vedere la partita. Con lo sgabello sul marciapiede, la guardo per televisione attraverso la porta del bar. A pochi metri, lo stadio in cui si gioca. Due autoblindo Iveco dei carabinieri sono parcheggiati; griglie in ferro su vetri e fari. Un carabiniere in assetto anti-sommossa, manganello nella cintura si avvicina per vedere l'azione della partita. Ritorna nel gruppo di commilitoni tra le transenne. La barista piccola dalle gambe ben tornite dal viso acuto, rassetta ovunque fa pulizia si allontana. Il tizio con la t-shirt nera il cappello da baseball in testa con l'elefante stampato in bianco con qualcosa di esotico / hippy la segue col bicchiere di birra in mano, le dice qualcosa serio, il frammento forse di un discorso amoroso di minuti precedenti; il tizio in questione pare più uno che ci provi piuttosto che uno spasiamante con le credenziali, lei gli risponde tranquilla laconica senza smettere di pulire: la sigaretta tra le labbra. Il tizio spazientito si guarda attorno, con passi laterali riacciuffa qualche parola nella mente, qualche idea,  riparte dopo qualche minuto, apre la portavetro del bar la segue sino al bancone. Marlene Dietrich aiuta il tizio, spinge la moto per la retromarcia, si mette il caso, sale in moto. Guardo la partita. L'ubriaco putrido straorza arriva a spron battuto. Bordeggia, infila la porta del bar: non perfettamente, dà una bottarella al vetro. Si riprende, spinge la porta, troppo. Strambata col rischio di tuffarsi, si sostiene con un colpo d'anca, si ripiglia, scala la marcia in seconda, dà gas alle gambe, si riposiziona in verticale con nonchalance riparte deciso. Non riusciamo a vedere dove si parcheggia: una sedia, se si regge a banco, se finisce a terra. Il tipo che mi è di fianco bofonchia, ride.          

lunedì 10 luglio 2017

cinquecentocinque


- Il litorale - Termoli / Vasto

I due Vigili Urbani chiacchierano sulla passeggiata del litorale, la canicola sontuosa, la città arroccata tra le mura in cui regna il color pastello, lo scuro mare mosso dall'ignoto, la brezza robusta solleva la sabbia i teli, rovescia gli ombrelloni, muta le forme. La ragazza sulla sedia al sole legge il libro dalla copertina blu, sulla battigia chi si scioglie i capelli riprende a camminare, preso la tintarella il barbone se ne va, il padre passeggia con la figlia raccoglie i pensieri le parole sorride ribatte, i ragazzini tra le rocce esplorano i meandri dell'acqua che fluttua e sbatte. Il canada air sorvola la spiaggia, plana sul pelo dell'acqua, si rifornisce torna sull'incendio, la rovescia; sorvola di nuovo il mare plana sul pelo dell'acqua. Il pinnacolo di fumo si alza vicino al porto da cui ti imbarchi anche per le isole, il via vai della Forestale, della Polizia, dei Vigili Urbani, interrompono l'accesso alle strade l'incendio lambisce la tangenziale. Il fuoco non può nuocere, non ci sono capannelli di persone, qualcuno a mani dietro la schiena osserva i lavori di spegnimento. Per il resto la solita normale tediosa indifferenza dell'animale che vive la fatalità che non impressiona.    

cinquecentoquattro


- Sui generis -

Il pazzo, capospalla nero, jeans neri, capelli bianchi scarmigliati sino alle spalle, l'andatura rapida, mastica nell'ira la voce roca, pare filtrata da un vocoder incorporato; tritura parole prive di filo logico, si blocca istantaneamente, si volta inveisce contro qualcuno, poi capisco, vedo i ragazzini. Lo hanno individuato eccentrico che cerca rogne nelle performances degli angoli più svariati della città, recita a perfezione monologhi surreali. I ragazzini non si fanno pregare lo seguono con dileggio negli occhi, presi da un minimo di stupore sia per l'anormalità del personaggio che pare uscito dalla trama di un film, sia per le rapide controffensive da pazzo innocuo che mostra avere nei loro confronti. Capra che mostra le corna in segno di difesa, capra rimane capra, fosse leone ci sarebbe da prendere delle contromisure serie. Pare ad un certo punto sia attore che recita una parte poi ne viene travolto. Come un mago dal cilindro della mano, getta a palombella tre pietre per la strada. I ragazzi sino ad allora vicini seppur a distanza di sicurezza, al lancio di pietre rapidamente si allontanano. Tra vetture, aiuole, edifici, gente che passa, il pazzo scompare, di sè lascia tre pietre scaramantiche sul selciato.   

cinquecentotre


- Hoc est caritas - ( questo è amore )

E' una di quelle frazioncine delle nostre parti nel mezzo della campagna: una strada la percorre come nel far west, l'agglomerato di case, la chiesa all'inizio o alla fine della strada a secondo da dove vieni. Un uomo in una villetta ad un piano con le mura del giardino basse tinte di bianco che ricorda isole lontane, viveva quotidianamente una sfida politica con la gente della frazione, di simpatie comuniste. A suon di striscioni che ideava, come gli ultras mettono lo striscione alla rotonda in tangenziale, li svolgeva da albero all'altro davanti casa, interloquiva / sproloquiava contro un eventuale interlocutore / interlocutori che non ho mai visto, ma ho sempre immaginato. Ho sperato di vedere qualcuno che reagisse ai quei motti degli striscioni, glieli strappassero: mai niente. Vedevo solo ciò che scriveva: frasi sarcastiche, sciabolate ideologiche, ce l'aveva con i rossi del creato. Egli era orgogliosamente di Forza Italia. Una volta lessi una frase dedicata a San Silvio. Era il periodo della presunta persecuzione dei giudici al primo ministro della Repubblica Italiana, Silvio Berlusconi. Questa querelle tra attori anonimi mi divertiva; allietava le mie mattine lavorative istruttivo come programma su Rai Storia: Karl Marx / Groucho Marx. Frasi puntute, sarcastiche, laconiche, ironiche, accattivanti, intelligenti, blasfeme, seguivo l'umore della querelle di questo fantomatico Forzista vs comunisti, lo stato di frustrazione in cui si trovava; avevo compreso che fosse a quel tempo, in quel luogo, disperso dall'uomo e da Dio: una mosca bianca armata sino a denti. Un apostolo della libertà tra tanti frustrati mono-neuronali. Passavo da quelle parti per fare colazione, leggevo divertito sugli striscioni la frase ideata contro i nemici ideologici. Poi guidavo chilometri di risate: era diventato un rituale. La ragazza incinta conversa a mano lieve sul pancione, lo accarezza, esprime meraviglia per qualcosa che non ha assolutamente intenzione di fare. Il tizio col cappello da contadino color cachi mostra la scritta inequivocabile, Boia chi Molla; nel frattempo con la lingua tocca la suscettibilità della donna che gli serve il caffè al tavolo la quale divertita in una sonora risata se ne và. Mi alzo dal tavolino, metto in ordine i ricordi del luogo, penso al Forzista, alle sue trovate, alle querelle con i comunisti, finisco il caffè, esco. All'uscita del bar le donne anziane sotto il portico giocano a pinnacolo parlano in dialetto. Il trattore parcheggiato è un Landini Legend 160 a motore acceso. La bandiera del piddì davanti alla sede non sventola, è avvolta all'asta, il tessuto nuovo ha un chè di non attuale. Il sole è inesorabile, un lenzuolo di luce che bagna il mattino, sicuramente tutta la giornata. Inforco gli occhiali, l'universo è tollerabile. Riavvio il motore; ciò che mi ronza in testa è l'essere Italico: il pensiero, il volere: zavorra inestirpabile, l'anima, il cuore, in me tutto si traduce in due frasi di natura opposta. Benito Mussolini il cuscino con cui la maggioranza degli Italiani ha dormito sonni tranquilli: l'esternazione è mia, non è autorevole, lo so, l'altra lo è di più, ed è: l'ho scritto, ho messo l'animo in pace, voi fate quello che volete. Karl Marx.   

cinquecentodue

- B.W -

Riposiamo, prendo appunti, mi muovo, ascolto. Dal tempo variabile fiondano raggi luminosi, enormi le gocce pestano il suolo; si presenta l'ombra universale, il sole parziale è un occhio beffardo tra le nubi; la nuvolaglia eterodossa simula catene montuose. Athena di Lemnia dorme profondamente, la capigliatura sparpagliata sul cuscino, il respiro non ostile sotto il ticchettio d'un nuovo rovescio. Più intrepido del consueto, l'afrore di terra squillante solleva cinguettii intrecciati al verde; il rumore sepolcrale degli zoccoli nel fulmine che scompare è un flash in bianco / nero.   

cinquecentouno


- Offida - ( borgo )

Campi di girasoli indispettiti che non guardano il sole, il semaforo sulla salita: freno a mano a sinistra prima marcia inserita a destra. Nella piazzetta stipata di vetture la fontana di bronzo in pompa magna. Due leoni, due aquile, una Dea delle acque, il putto sul capo, l'acqua che sgorga. Dal quarto piano dell'edificio, l'orientale a chiazze di vitilligine sul volto turbato, cui do nome Ruiky, indietreggia dopo aver chiuso le imposte. I due fotografi loquaci, lui sessantenne chic, lei intellettuale col cappello da donna Newyorkese, mi chiedono se l'acqua è potabile. Rispondo che ho bevuto da un po': mi sento ancora bene. Si sentono felloni, ridono. Col treppiede inquadrano la piazzetta, la fontana, cambiano idea, ci salutiamo. Poco distante il portico con sei colonne rivestite con listelli di parquet, la piazza triangolare obliqua alcune persone sedute su panchine governano i capelli scarmigliati dal venticello. L'orgia di bellezza architettonica scavalca l'abitudine al brutto che ho dentro, mi si assottiglia, spazia nella mente, mi raccoglie inerme, esausto corpo nelle braccia della Musa bellezza, mi riconsegna al principio, resuscito a ciò che è degno nell'uomo. La brezza d'inizio sera disegna mio figlio al telefono con sua madre. Guardo la targa sul muro: piazza del popolo. Al termine del portico sul tavolo in noce, una tovaglia bianca, piatti, posate, bicchieri. Dentro il locale, quella porta scura aperta nell'angolo è la cantina. Al Teatro Serpente Aureo posto davanti al portone segue il cartello - chiuso -. M'incammino per via Vannicola Defendente il tipo col pipullo in testa che incrociamo parla per conto suo, sembra prendersela con un interlocutore immaginario; indossa una t-shirt che ricorda la prima pagina d'una fanzine new weave anni 80, cammina gesticola, non fa caso a noi, scompare dietro l'angolo.           



sabato 13 maggio 2017

cinquecento

- Il bar -

Intaccato dalla beatitudine la capatina al confine tra vivi e morti è nella baita, chalet, zattera di legno immersa nel centro cittadino. Seduto sotto le maestose chiome mi affaccio alla balaustra da cui vedo la metropoli piccola orizzontale, scorre alla velocità del traffico di questa primavera; ovunque il verde brillante è rigoroso nei corpi rinserrati dai foulard, nelle sciarpe, nello spirito del sole che accosta le t-shirt a braccia scoperte, il nulla non ha patria, il silenzio nemmeno se lo desiderasse, perennemente interrotto dalle presenze che mi circondano. Materializzate gerani le note fuoriescono dalle casse stereofoniche, il folk singer strimpella il quieto vivere invia tra caffè cappuccini baci lievi sui refoli del vento. 

lunedì 1 maggio 2017

quattrocentonovantantanove

 
 - Una giornata qualunque -
 
 La storia della giornata più o meno è questa: ho uno screzio puntuto al telefono con la tipa, mi rivolge una battuta che apprezzo per stile, scelta di tempo, ma ha la controindicazione di farmi imbestialire. Le messaggio sul telefono una frase da capitolazione di cuore e anima per procurarle una morte cerebrale istantanea. La giornata non si prospetta un gran chè. Inizio il romanzo di no scrittore americano mi ricorda Cèline, ma è un'altra cosa. La lettura dei romanzi di giorno mi fa dormire. Penso ad alcuni problemi come risolverli nel modo peggiore in modo da creare un futuro plausibile: muore Sansone e tutti i Filistei. La donna matura femminilità vivace passo da footing si fa guardare nonostante l'età. Il film dell'altra sera parlava della realtà del Kossovo serbi e albanasi ortodossi mussulmani. Non c'è niente da fare, la realtà non m'interessa un gran chè. Divago, frasi, momenti, volti, profili, appallottolo tutto e lo getto nel retro della memoria. Mi dedico ad un'introspezione terapeutica ricordando una poesia di Fernando Pessoa; non riesco a scorgere nulla: tutto buio dovrei entrare in me con la pila o l'elmetto da speleologo. Pure il Vangelo è distante in questi momenti. Un attimo di vertigine sono al galoppo sulla neve del morir d'inedia. La musica colta non mi riempie. Ascolto gli Ac/Dc e regredisco per impugnare il centro dell'esistenza. Piano piano risalgo la china ascolto del rap versione club.Fuori dal locale la ragazza di una volta col volto da 12 pollici truccati mi saluta. Mi fermo entro per bere una birra, la scritta " che schifo " mi passa tra la memoria di un recente passato che si rinnova; la devo aver letta sul muro da qualche parte. Condiziona: ho voglia di qualcosa di solidamente schifoso: un hot dog e papatine fritte; unico contributo degli Inglesi alla cucina mondiale. Sto vivendo la vita di un altro, lo accompagno al letto a stomaco pieno.    

domenica 26 febbraio 2017

quattrocentonovant'otto


- Goa -


Mi dice che la piazza era un luogo psicanalitico. I racconti della vita di ognuno venivano ascoltati per costruirsi non per fare pettegolezzo, a vivere si muore e l'oblio è terribile. Bisognerebbe scrivere la vita di ognuno per via che non sia perduta. Era bello vivere allora, non era la giovinezza la causa della nostra felicità, ma la consistenza della vita densa come la consistenza del corpo che ami. Che i nostri germogli sono incomprensibili e noi siamo rami secchi. Una volta applaudimmo il matto del villaggio che aveva recitato una poesia di notte: noi in cerchio seduti ed estasiati dalle parole, ci ammutolimmo per vestire l'eternità nel suono di quelle parole; i gesti del poeta sul palcoscenico della piazza si liberavano dalle mani per appollaiarsi uno ad uno sulla lancetta del tempo, ricordi ? C'eri anche tu, eravamo seduti di fronte al bar Dorando. C'era anche la ragazza di cui eravamo innamorati, era meravigliosa con quei capelli, una bambola, si è laureata sai ? Poi non so, l'ultima volta che l''hanno vista pareva sofferente, seduta in un ufficio pubblico, l'occhio spento sul reale, vivo nella profondità dell'imo, agitava un foglio di giornale a ventaglio, con le labbra circolava nei propri pensieri; è sempre stata strana, l'unico con cui aveva confidenza e parlava è morto, lo conoscevi ? Forse no, era di un altro tempo come me. Ora tutto è in frantumi viviamo un'epoca smemorata. Allora indossavamo una maschera teatrale, è vero, ma era mobile oltrechè nobile, ora vedo indossare quella di ferro, uguale per tutti, ignobile, nobile, educata edulcorata, chi è bravo capisce, ma questo non è l'arte della finzione attraverso cui individui la verità, questa è l'estinzione dell'essere umano, dove c'è danaro si è sempre lontani dalla verità. Viviamo il tempo dello spirito pragmatico della locusta come nulla fosse. L'amore dov'è ? Il grande assente di cui tutti parlano, ma nessuno sente nè vede nè conosce. Sorride. Mi stringe la mano, mi dice che è contento di vedermi e se passo di là, di andarlo a trovare, ci beviamo del vino ci raccontiamo cose, sai dove sto ? Ho lo studio là in mezzo, dopo la curva c'è una lapide di un partigiano morto per non so cosa, un sacco di gente è morta per non so cosa, anche oggi un sacco di gente muore per non so cosa, la morte è inspiegabile per chi pensa di essere immortale: di nuovo sorride alla battuta di spirito che gli è uscita; sto lì in angolo in una porzione di casa a piano terra dentro una lunga vetrata che si affaccia sulla campagna, dove il sole mi possa illuminare con le mie cose, creo sculture cui parlo se fumo marjiuana tento di farle camminare.   


* alcuni chiarimenti su ciò che ho scritto

Goa è lo stato più piccolo dell'India il più ricco. Ex colonia portoghese per 500 anni non ci sono templi Indù, solo chiese Cristiane. Meta dagli anni 60 dei movimenti hippie ha spiagge chilometriche. Goa è il nome del mio amico in questo racconto.

giovedì 16 febbraio 2017

quattrocentonovantasette

                                        

  - 8 e mezzo -


Salgo sul campanile della Pieve di S. Maria sagra in piazzale Re Astolfo, lego una fune di acciaio la tiro sino alla torre della Ghirlandina. Renato da basso con flemma osserva il lavoro parlotta con Valerio. Sulla fune faccio scorrere delle cabinovie. Una Fiat 1100 parcheggia scendono Francesca e Mara a fatica trascinano un corpo. L'ex primo ministro viene deposto in un'aiuola nel giardino del teatro con una motosega sezionato a pezzi. Un lavoro da macellai che le due ragazze eseguono alla perfezione come se lavorassero al macello. Rimesso nel sacco più agevolmente lo poniamo nella cabinovia in modo che sgoccioli abbondantemente nella tinozza posta a terra. Il sangue raccolto verrà usato dalle rezdore per fare i ciccioli alla festa dell'unità. Entro in chiesa della Sagra porto all'altare la ministra con la palpebra a mezz'asta. Quando Don Rino consente di baciarci la bacio, un cunnilingus interminabile. Ho la lingua salata mi alzo per dissetarmi il chierichetto mi allunga un bicchiere di acqua santa la ministra squirta con uno zampillo da porno diva. Wanda la mia maestra elementare con l'acconciatura da Sofia Loren entra in chiesa, il camice nero da maestra statale col misurino con cui si misura il litro, intercetta lo zampillo. Alla luce del sole lo misura mi dice " 8 e mezzo ". Mi chiede se la matematica l'ho imparata o è un'opinione come per tutti, le dico che sono povero perchè ho imparato a fare i conti giusti. Le dico che ero convinto fosse morta mi risponde che quando è necessario torna in vita. Mi riconsegna il quaderno di matematica che mi lanciò nel cestino. Supero la statua del duce Benito Mussolini in piazzale Re Astolfo, Renato fuma un sigaro  osserva la porta murata della mensa Mara e Francesca sedute sul muretto parlano di esplosivi politici da gambizzare. Notiamo nei giardini del teatro una decina di individui, alcuni sono giornalisti prezzolati di quelli che scrivono che tutto è a posto gli altri degli spaventa passeri. Dalla tasca prendo lo zippo marca Dupont, mi avvicino e appicco il fuoco a uno qualsiasi il quale come se niente fosse nella fiammata continua a bruciare senza consumarsi, così gli altri, ognuno brucia senza consumarsi. I giornalisti prezzolati osservano senza prendere appunti. E' tutto a posto. Renato e Valerio pensano che se costoro bruciano senza consumarsi, significa che c'è di mezzo Dio. Mara è atea propone di sparare un colpo in testa a ciascuno, per appurare se il loro Dio è di tipo arcaico o moderno come le armi da fuoco e ha il potere sulle pallottole. La ministra senza mutande nel vestito di tulle alzato sino all'inguine, ci raggiunge, le metto una mano sulla passera per via che non voli via. Tutti insieme con lo stesso sguardo con la palpebra a mezz'asta vediamo la stessa cosa. Giornalisti prezzolati e spaventa passeri falò camminano sul palco del teatro e recitano Les Miserable di Victor Hugo. L'airone con la livrea stampata dalle rotative del Manifesto vola sul campanile, sotto le ali ha tatuato in caratteri inglesi un articolo di Giame Pintor. Non importa che vi dica che mentre m'incammino verso la piazza dedicata ai Martiri vedo un tronco rovesciato e un asse sopra, su cui due teste mozzate d'intellettuali di sinistra, fanno l'altalena; tantomeno dei gabbiani che nell'angolo del sogno si accontentano del loro stupido candore chiassoso nelle discariche anzichè al mare; che sul terrazzo della Sinagoga in piazza, Roman Abramovich a tavolino si fa servire le sublimi ostriche di Cap Ferret da Anna Frank ilare educato mentre passo a piedi mi dice Mazel Tov: son cose che non vengono comprese.




* alcune precisazioni su quello che ho scritto

Il racconto nasce da un sogno il titolo è palesemente riferito al film di Federico Fellini  8 /2

Renato è Renato Curcio fondatore delle Br
Mara è Margherita Cagol co-fondatrice delle Br  ( Brigate Rosse )

Francesca Mambro è stata un'esponente dei N.A.R
Valerio Fioravanti è stato un'esponente dei N.A.R  ( Nuclei Armati Rivoluzionari )

Wanda Carra è stata maestra elementare e moglie del politico carpigiano Vittorino Carra della Dc

Giaime Pintor è stato fondatore del quotidiano Manifesto giornalista e antifascista

Don Rino amabile sacerdote della Pieve di S. Maria detta Sagra

Roman Abramovich imprenditore e politico Russo di origine ebraica

Mazel Tov = buona fortuna in lingua ebraica      


                     

domenica 29 gennaio 2017

quattrocentonovantasei


 - Black sacred -


Busso mi apre la porta, la ragazza robusta mi chiede cosa voglio, le chiedo se posso entrare per vedere. Guarda in sala, si gira, mi risponde si. Il padre della ragazza, mi dà un'occhiata, un cenno col viso mi indica dove c'è un posto. Vecchie seggiole da cinema. La ragazza robusta ha modi cortesi parla il mio idioma, con lo sguardo mi segue nei movimenti. Il padre si accerta che come ospite sia seguito. Nella sua lingua dialoga con figli amici che mi sia fatta la traduzione. La figlia mi chiede se ho con me la Bibbia, le dico a casa, sorride alla risposta, mi sento ingenuo, dico no, ne trova una su un tavolo, me la porge dopo aver cercato il passo di cui la sacerdotessa sta parlando. Daniele capitolo 10. La sacerdotessa riassume il brano, commenta, chiede, da risposte. Parla al microfono l'alto volume non disturba nessuno. Dal piano superiore cui si accede da una scala laterale interna in legno come quella che ho visto in un film girato a New Orleans, si sente provenire una musica da ballo. Sacro profano si tollerano . Nei momenti di silenzio della sacerdotessa, la musica spensierata scivola sulle nostre teste come il gioco di un bambino in un luogo sacro; quando la sacerdotessa parla la ragazza mi traduce; termina di commentare il brano di Daniele della Bibbia, racconta un sogno che fece. L'alto volume della narrazione induce la ragazza ad avvicinarmi la bocca all'orecchio per tradurmi il sogno, incontro un'onda con la vista, la sento di capelli femminili puliti sulla maglia. Nel sogno la sacerdotessa incontra un Demonio che la inganna, lei si accorge dell'inganno attraverso i fiori che sono di fuoco. Il padre della ragazza mi guarda, guarda la ragazza senza dire nulla. Provo un attimo di insofferenza, non ho capito tutto quello che c'era da capire, la ragazza mi ha distratto. Non è colpa sua, la giovinezza mi distrae. Davanti a sè ha il futuro che io ho bruciato e non ho più. C'è uno spirito che vale la pena di conoscere dentro la gioventù, di purezza, non intaccato dall'esperienza; quel modo di vedere il mondo che può salvare il genere umano. Vorrei essere attorniato non da amanti, ma da figli figlie, che generano questo sentimento nell'aria che può respirare chiunque, senza morire prima di scomparire dal creato. La gioventù non mi manca, mi manca la giovinezza attorno, la spensieratezza, il senso di futuro del futuro, che mi / ci è stato depredato, sostituito dalla vecchiezza, dal senso ridicolo che mi / ci pervade ammorba l'aria come consuetudine, normalità di vivere in realtà si sopravvive, poichè la giovinezza che non intacca la nostra società rinsecchita, ha uno spiraglio di luce che irradia gli esseri viventi rendendoli rivoluzionari per il fatto di essere / esistere. Le società giovani squassano l'ordine se si regge ingiustamente scorre il sangue. E il sangue ha fascino / energia, sul sangue si costruisce la via luminosa per ringiovanire la società. La ragazza intuisce un imbarazzo per qualcosa che non sa definire, l'imbarazzo per aver avvicinato e aver percepito la mia diversità di uomo. Curioso, se sono in quel luogo religioso che evoca la patria africana lontana dalla città in cui viaviamo e lontana da me che sono un bianco. La ragazza si allontana aiuta la sorellina a risolvere un intoppo, parla col fratello il quale mi guarda come si guarda l'anomalo con rispetto, torna, nel momento in cui torna, mi alzo dalla seggiola le guardo i capelli voluminosi: la ragzza incinta più in là, il bambino cui ho risposto con una smorfia, il padre assorto nel sermone, la moglie uscita dal coro delle donne gospel. Le allungo la mano per salutarla, allungo la mano al fratello, mi volto, chiudo la porta cigolante, guardo la scala di legno obliqua che porta sopra dove suonano ballano, esco all'aria. La notte. Un gruppo di ragazzi infreddoliti col cappuccio calato in testa a rapper metropolitani mi guarda di spalle andarmene tranquillo.                            

quattrocentonovantacinque



 - Un cocktail con Emily Dickinson -


Seduto al bar sorseggio il mio caffè, tutto nel disegno che mi si svolge davanti è lontano. Il piano americano della donna che fuma di scorcio fuori dalla porta del bar, digita l'abito nero su cui taglia le ali di farfalla; le indossa attraversando la notte ignora i radar, gli infrarossi che detengono il potere dell'invisibile, segue alcuni versi poderosi che le illuminano il percorso, atterra posandosi esattamente di fronte a me. L'uno davanti all'altra. L'onirico mi percuote si deposita sogno di lei nella mente. La donna appende le ali all'appendiabiti. Si siede ordiniamo il cocktail Daiquiri: Ernest Hemingway ne era un forte intenditore rum, limone, zucchero, ghiaccio tritato, maraschino, la versione inventata da Hemingway nota come Papa doble da cui tolse lo zucchero, lo ordinava doppio. Conversiamo amabilmente del nostro modo di vedere la vita, del modo di morire, resuscitare giochiamo con l'eternità di cui l'umanità teme la trama, la prospettiva della parola nella coscienza, prospettiva immagine nell'inconscio collettivo, individuale, sul determinismo dei colori ecc. Emily Dickinson aprezza il Daiquiri sorseggia sulla sedia a dondolo che si è portata dal Massachusetts ascolta le parole che tra noi fluiscono a tal punto, che dolcemente si alza dalla sedia con una forbice di argento taglia alcune frasi annodate, ingarbugliate, dopo essere state espresse nel discorso da cui fuoriescono come da un cilindro nero quattro colombe di bianco lunare, volano di qui di là dentro il bar sino ad atterrare sul tavolino, sul davanzale della finestra bagnata di pioggia, sull'orlo del bicchiere da cocktail, poi ne esce una quinta colomba fatta di jeans con le zampette in ferro rosa pare anch'essa fatta da Dio penso" buffa la vita, vola come le altre ! " Nel frattempo Emily taglia e cuce le parole sino a quando si rimette a sedere sulla sedia a dondolo, mi mostra una parola ricamata da lei su una pezzuola con scritto WOW che mi dona, mi lego alla fronte come pasdaran nella guerra tra Iran / Iraq guardiano della rivoluzione, sulla pezzuola i versetti del Corano passaporto per il paradiso con cui il pasdaran affronta la battaglia. Emily si rimette a sedere sorseggia il Daiquiri lentamente, per manifestarle la mia gioia per il dono del WOW ricamato, aziono il carillon minuscolo piano nero sul banco del bar, la musichetta è accompagnata dalle parole recitate da Ian Curtis cantante dei Joy Division della poesia di Cesare Pavese // Verrà la morte e avrà i tuoi occhi,  questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. I tuoi occhi saranno una vana parola, un grido taciuto, un silenzio. Così li vedi ogni mattina su te sola ti pieghi nello specchio. O cara speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla // Thelonius Monk piccolo suonatore del carillon dopo aver atteso l'applauso meritato che nè io nè Emily gli neghiamo per l'accompagnamento musicale alla struggente poesia, fugge a gran carriera scivola sul banco reggendosi alla zuccheriera per l'arrivo minaccioso di uno stormo di uccelli elettrici in volo. Entrati a gran carriera attraverso la finestra dove il colombo bianco lunare tuba sul davanzale avvicinandosi e allontanandosi dal vaso in cui una mano umana piantata a mo' di bonsai da chissà chi, funge da pianta carnivora; uccelli da un lungometraggio di Alfred Hitchcock con la dinamo sotto le ali il becco acceso dal faro atterrano come una foto ricordo nel dehor di tavolini e allo stesso tempo a centinaia di chilometri in piazza del Duomo di Milano. Svolazzano sul volto e la testa di Ian Curtis il quale sorride a Emily Dickinson che ricambia mi sussurra " quel cantante ha un viso da britannico intelligente che viene dalla periferia " Thomas Stearn Elliot uscito dalla toilette sedutosi digita lo smarth phone s'infila l'auricolare si alza butta nel cestino un foglio appallottolato, ed esce a fumare una sigaretta. Lo vedo ridere di gusto mentre se l'accende, si volta mi guarda alza la mano regge un cartello che mi mostra oltre la vetrina del bar, c'è scritto - se il vino non lo reggi te lo devi magnà a chicchi ! ( Bacco ) - Rido sonoramente mi piego verso il cestino, raccolgo il foglio appallottolato lo svolgo in corsivo è vergato il testo della canzone Love Will Tear Us Apart dei Joy Division scritta proprio da Ian Curtis forse la canzone più struggente degli anni 80 /90 della new weave. Sussurro all'orecchio di Emily rispondo" si è britannico, famoso negli anni 80, autore di una canzone famosissima s'intitola Love Will Tear Us Apart scritta mentre si stava dividendo con la sua compagna Deborah s'è impiccato ad una rastrelliera fissata nella cucina di casa " le leggo l'inizio del testo della canzone dal foglio gettato da T. S. Elliot " when routine bites hard, and ambition are low, and the resentement rides high, but emotion won't grow, and we're changing our ways, taking different roads, then love love will tear us apart " cerco di tradurre il testo in Italiano - quando la routine morde duro, le ambizioni sono basse, il risentimento vola in testa, le emozioni non crescono, stiamo cambiando i nostri modi prendendo strade diverse, poi l'amore ci farà a pezzi - sono ipnotizzato dalle parole; entra in bar Slobodan l'amico che incontro ogni mattina al lavoro vestito da centurione romano fisico guerriero viso stralunato siede al tavolino si spalma una crema antiinfiammatoria sul ginocchio tra se maledice non so chi a voce alta si lamenta che ha i tendini infiammati mi mostra la custodia del farmaco voltaren gel mi dice che sta facendo la comparsa in un film storico dei fratelli Cohen sul set è estate c'è un caldo torrido gli è venuta voglia di mangiare un cocomero, gli dico che le cocomere d'inverno se ci sono le vendono alla Coop, mi risponde che non gli piace andare alla Coop vestito da centurione romano, chissà cosa pensa la gente, gli dico di non preoccuparsi di solito la gente che va ai supermercati non pensa; comunque non gli piace, mi chiede se in zona c'è un negozio di frutta, gli dico non so, avvia dal cellulare il navigatore per vedere se in zona c'è un negozio che a febbraio vende i cocomeri gli faccio gli auguri. T.S.Elliot mi mostra un altro cartello su cui c'è scritto- prima devi sapè perchè stai al monno, quando sai il perchè ce stai, te devi imparà a staccè- e ride a crepapelle - penso che sia un cartello antistorico, nessuno si pone più la domanda di sapere perchè si vive. Ian Curtis si allaccia la cintura ed esce dal bar mentre i baristi cinesi assorti nei loro giochi allo smarth phone pare abbiano un talento per la distrazione che è impareggiabile, guardano un film western parlato in tedesco sottotitolato in cinese e ridono come matti. Mi volto guardo Emily che ha cercato di tradurre il cartello vergato in romanesco da T.S.Elliot le direi che quando iniziai ad amare la poesia la prima cosa che feci fu imparare a memoria una sua poesia dopo aver letto Lezioni Americane di Italo Calvino ma taccio e penso alla mia Musa, guardo la televisione sul palco suonano i Rolling Stones un po' matusalemme sembrano morti che ballano, dalle nostre parti si dice: la morte ubriaca. Al tavolino nell'angolo Andy Wharol mangia un hamburger il cineasta della Factory lo inquadra per tutta la scena dello spuntino, nel finale Andy si presenta al pubblico " my name is Andy Wharol just finally eating hamburger " si alza si aggiusta la cravatta scompare dalla telecamera la quale registra la scena della vetrina oltre la vetrina un paio di gambe che passano svelte un cane di piccola taglia al guinzaglio annusa un angolo. Emily con mia sorpresa traduce il cartello in romanesco di T.S.Elliot sorride. Vedere i Rolling Stones nonostante siano eccellenti strumentisti mi deprime, sono delle carcasse. Se qualcuno di loro morisse mentre suona non mi stupirei: sarebbe uno scoop. Vedremmo la morte in diretta infinite volte, da tutte le posizioni come una lezione di kamasutra. Le gambe inquadrate dalla telecamera della Factory di Andy Wharol trasportano il corpo di un uomo corpulento che lega il cane al guinzaglio al muro entra parla in francese ha una Goluoise bianca gli penzola dalla bocca i baristi cinesi distratti lo ascoltano a braccia conserte sul bancone chiede un Pernot. Si guardano stupiti non sanno che cosa sia un Pernot. Da attore consumato il francese corpulento estrae dalla tasca per i due a bocca aperta una bottiglia di Pernot, sorride mi guarda: ho il nome sulla punta della lingua di sto tipo  l'ho visto in fotografia è  Jaques Prevèrt. L'aeroplano a motore di nome Pippo sorvola la zona della ferrovia una volta sulle nostre teste lancia distribuisce volantini. Jaques Prèvert esce dal bar col la bottiglia di Pernot in mano guarda in alto il volo della cicogna in ferro lo svolazzare dei volantini ne raccatta qualcuno rientra in bar assorto nella lettura. Col volto interdetto mi mostra il volantino dove non compare nessuna scritta. Ian Curtis cresciuto in una suburbia, smaliziato, con una moneta di alluminio magnesio delle 10 lire Italiane dove compaiono le due spighe di grano dall'altro lato l'aratro, gratta sul volantino, dove compare un messaggio un ologramma della Musa. Il cane legato al guinzaglio è un Jack Russel dal temperamento dinamico quando vede la gatta rossa di dove lavoro, la Mimina che salta sul davanzale per addentare la colomba, si divincola col collare inerte strisciante a terra la rincorre abbaiando con decisione. La colomba vola per tempo evita di diventare pasto per la Mimina, non le rimane che addentare la mano bonsai nel vaso il quale sente i denti aguzzi affondare nel legno lancia un urlo che atterrisce. Il Jack Russell fugge nell'angolo si lega il guinzaglio all'anella, la Mimina scompare. Leggo il messaggio ologramma della Musa, Ian Curtis si allontana senza chiedere di tradurlo. Emily non chiede, capisce. T.S.Eliot è disinteressato gioca alla slot machine Jaques Prèvert mi recita una sua poesia di amore. Qui est là / Personne / C'est simplement mon coeur qui bat /Qui bat très fort / A cause de toi / Mais dehors / La petite main de bronzesur la porte de bois / Ne bouge pas /Ne remue pas / Ne remue pas seulemente le petit bout du doigt. ( Chi è / Nessuno / E' solo il mio cuore che batte / Che batte forte forte / Per te / Ma fuori / La manina di bronzo sulla porta di legno / Non si muove / Non si agita / Non muove nemmeno la punta del dito ) Annuisco: lo so bene. Rodolfo miagola, fuori dalla vetrina mi ha individuato, cerca la porta di entrata, s'infila tra le gambe dei tavoli, di quelle umane, salta sulla sedia fa le fusa si accocola tra le gambe. Gene Hackman e Ava Gardner si siedono a tavolino al freddo lei indossa maglia gonna scuri in tinta, una pelliccia di volpe due orecchini d'oro ai lobi, Gene Hackman ha pantaloni di lana, giacca da caccia di tweed e cravatta di seta smeraldo un cappello con la piuma. Ava Gardner mi saluta Gene Hackman mi sorride il cane un kurzhaar, mi fa le feste mentre mi avvicino, è la Nori. Gene Hackman è mio nonno Ava Gadner mia nonna si toglie gli occhiali, rimuove con perizia l'occhio di vetro lo pulisce come una lente appannata l'infila di nuovo nell'incavo mi chiama Nìgò, il soprannome che usava quando ero bambino. L'ultima volta che li vidi a tavolino insieme, eravamo al lago di Lucerna negli anni 70: ordinammo un gelato, ce lo servirono in un bicchiere con un biscotto infilato di traverso. Del bicchiere ricordo tre petali in vetro, il gelato stucchevole come tutti i supermercati dove mia nonna amava andare. Li, la sua immaginazione, correva ragazza / donna superava panorami di misera guerra, la curiosità soddisfatta, il desiderio di stupirsi su tutti i prodotti, come ci si stupisce d'amore nelle fiabe, oltre ad essere novità da poter acquistare.  Mia nonna aveva una qualità, rendeva tutto il mondo che la circondava effervescente. Aveva avuto in dono assieme a mio nonno l'incanto della consuetudine. I boschi che circondavano la cittadina in cui vivevamo, le vetture che scorrevano sulle strade moderne di allora, l'architettura dei ponti simile al viso dei contadini del luogo, la ferrovia scorrevole dai locomotori pesanti, la neve che appesantisce le fatiche fisiche e allevia il senso mortale della vita, la luna magica illusione, il cielo stellato infinito corpo mistico in ognuno di noi; la magia di allora che è perduta, la incontro solo nelle poesie, mentre allora tutto risultava magicamente plastico vivo dentro e fuori, le persone seppur serie, ieratiche, brillavano. I miei nonni scompaiono, Rodolfo acciambellato non più sulla sedia ma sul termosifone dorme sereno quando torno. Il bar pare uno scheletro di cose senza nessuna anima, Emily ha lasciato il suo bicchiere di Daiquiri sul tavolo vicino alla tazzina di caffè, pago il conto me ne vado.        
         


                         

lunedì 23 gennaio 2017

quattrocentonovantaquattro




 - Gloria Swanson -


La tipa siede col tipo dal volto rurale, profuma di stucchevole, ha un accento volgare che non irrita, indossa stivaletti provocanti, conversa con fare risoluto da chi nella testa ha un pensiero la volta. E lo indirizza senza tanti fronzoli al tipo rurale che ha fronte: fare modesto, d'intelletto sagace su cose ovvie, opera pia nella gestualità, mondano senza strafare, di poche parole. Pseudo-vigile alle parole che giungono dal reale dal tipo rurale, la tipa legge messaggi al telefonino che le illuminano il volto coperto dalla penombra. Bevo il mio gin tonic: gin Bombay ha un gusto più rotondo, meno secco del Gordon. Il barman a volte me lo fa pagare 4 euro altre 6, dipende a che ora ci vado. Con la cannuccia nera mescolo il ghiaccio nel bicchiere, il tintinnio del vetro mi ricorda la battuta di John Lennon alla platea in teatro quando invitò a battere tutti le mani: quelli delle prime file potevano far tintinnare i gioielli. Le due ragazze poco più in là si amano si parlano lei mascolina giovane si alza dalla sedia si avvicina alla compagna amica, la bacia appassionatamente, si risiede, si rimette a dialogare ad alta voce da chi è abituato a dialogare nei locali dove la musica è ad alto volume. Lei mi dà le spalle, ascolta lo sfogo dell'altra lei, che in due battute si rasserena, si guardano intensamente dicendosi, amore, cara, ti amo, si ribaciano, abbondano di effusioni, si danno la mano, escono per fumare. Il mio gin tonic continua a tintinnare mentre mescolo il ghiaccio cerco la fettina di limone.  La tipa guarda il telefonino abbozza un discorso col tipo rurale: ...gli emigranti non è giustificabile che l'Italia... eccetera eccetera, il tipo rurale le spiega che 20 anni prima non era così. La discussione si perde tra le note di Living on the Edge di Marie. Bel & Grandmax. Laggiù la testa del barista apre il frigo a vetro osserva le etichette delle bottiglie. Un nord-africano alla moda con gli auricolari bianchi mi passa davanti, si ferma, assaggia gli stuzzichini al buffet. Il tipo dal volto rurale ha lo sguardo perso nel vuoto da animale malinconico, non ho idea di cosa possa pensare, oppure si ascolta; lei distoglie lo sguardo dal cellulare, guarda il tipo rurale senza dargli importanza col tono da emancipata, tipo : mentre sull'asse da stirare stira fazzoletti e mutande, gli dice che trova normale che una donna abbia amicizie maschili. Al rurale gli viene la tremarella nella voce, gli si gonfia il collo, la t-shirt sotto i pettorali con la scritta de puta madre spampana, irrigidisce esercita l'auto-controllo, laconico le dice " io non ho amiche ! " lei gli dice che lei si, ha amici, stentorea gli chiede" ...non sarai mica geloso... ? ".  Il rischio del litigio viene meno, lui si distrae sul fondo schiena di una delle ragazze tornata da fuori dopo aver fumato la sigaretta. La proprietaria del fondo schiena somiglia a Gloria Swanson in piccolo. Minuta come l'altra ragazza che assomiglia anch'essa ad un'attrice d'un film muto, più mascolina di Gloria Swanson. Si avvicinano con passione si baciano come nel bacio di Robert Doisneau; al rurale che le osserva pensando a cosa rispondere gli si ingentilisce il volto guarda la sua tipa profumata, come si guarda la donna da un certo momento in poi. Le due innamorate si sciolgono dal bacio, si siedono, si ribaciano, si parlano all'orecchio, si distanziano, di nuovo si guardano carne e amore, la ragazza dice " io sono una ragazza insoddisfatta " guarda Gloria Swanson che le risponde, muove le mani, si libera alla luce un minuscolo tatuaggio, le unghie vermiglio brillano, le mani bianche diafane bellissime. " C'avresti un bel coraggio !" si sente dire da lui col volto rurale più intenso e scavato di sofferenza gli torna su un rimasuglio della discussione di qualche minuto prima " c'avresti un bel coraggio ! " la ragazza col cellulare in mano con prudenza femminile non risponde. Il tipo dal volto rurale insiste per portarla all'angolo della discussione. Nel silenzio che intercorre tra loro ordina una birra. La ragazza continua a messaggiare al telefonino, riprende la situazione in mano con calma gli sfiora idealmente i testicoli accarezzandolo tenta d'ingentilirlo come si fa con i tori. Gloria Swanson bacia al collo la ragazza che ama, paiono disinteressate da tutto tranne che amarsi, la ragazza risponde toccandole i seni, si alzano, s'illumina il cellulare, Gloria Swanson risponde ricomponendosi nella voce, raccoglie la borsetta, la sciarpa, entrambe s'indirizzano verso l'uscita. Salgono in macchina se ne vanno. 
               

quattrocentonovanatrè



Willy de Ville 


Il tipo ha un capo spalla marron da cow boy delle montagne rocciose, di quelli che s'indossano in una tormenta di neve; ha lo sguardo di chi osserva un avamposto dove finalmente riuscirà a bere qualcosa di caldo nella tazza che stringe tra le mani, da un samovar tolto dalla piastra sulla stufa. Entra dalla porta vetro, si avvicina al bancone del bar come se entrasse in un saloon prima d'una carneficina pulp. I risvolti ricciuti del montone maniche / collo evidenti, i capelli sono spettinati da pianista geniale: forse lo è, mai disperare l'eccezionalità: pepite nella grotta dell'ovvio. Tatuato ovunque tranne il viso ricorda vagamente uno dei tre moschettieri di Dumas, perlomeno lo evoca ( privo di piglio ironico sotto i baffi ) ma non ha il phisique du role da spadaccino del Re. Ricorda piuttosto Willy de Ville dei Mink de Ville calza un paio di vaqueros da messicano, da chi vive in un ranch a El Paso nel Texas, oppure evoca la vacanza nella regione della Camargue a sud della Francia nella cittadina di Saint Marie de la Mère, dove vivono gli zingari e le fameliche zanzare estive che atterrano sulla cute per succhiarti il sangue, tranne quando soffia il vento. Pare si sia studiato il copione comportamentale da divo di provincia prima entrare, tra noi zotici incolti. Guarda il barista con l'espressione psicopatica, con due mosse pseudo-nobili da salotto kith disprezza il luogo da mensa popolare, si rivolge al banco il barman risponde " và là". Deve avergli detto una cazzata fuori misura per avergli risposto va là. Mi aspetto che dietro l'attore compaia la macchina da presa, il regista, l'aiuto regista, compagnia bella. E' vita vera.  E io sono in prima fila non ho pagato il biglietto solo la consumazione: il gin tonic fatto col Tanqueray Ten, se esageri ti dà l'impulso di far l'amore con chiunque pensando sia normale, rinveni scopri che hai fatto l'amore con uno gnomo con la parrucca da prima donna, ti sei intrattenuto filosoficamente con un paio di baldracche polacche con le pieghe dell'infelicità negli occhi, parlato con un rinsecchito di sinistra che chiede attenzione per i suoi castelli svaniti nell'aria: di fronte a questa infelicità ordini l'ennesimo gin tonic col Tanqueray Ten. Non per fare il moralista, ma quello che voglio dire è che il gin tonic è un circolo vizioso, il cane che si morde la coda. In ogni caso al barista che gli dice va là, distratto dal Samsung Galaxy a 3, Mink de Ville appena vede che solleva il capo per dirgli un altro va là, gli dice che: ha tre appartamenti a Milano, è una sorta di manager, uno scienziato, un ingegniere di Google, stilista per grandi aziende, desiger di prototipi, il barista non riesce ad abbassare la testa e continuare col pippiripì / pippiripì del giochino stordito dalla rapidità dell'eloquio, un po' interessa sapere di tutto questo lusso che deborda dalle parole, ma ne farebbe anche senza resta ipnotizzato qualche istante di troppo; Mink De Ville attento al canovaccio ipnotizzato / distratto, le dice più fragorose, alza la voce, sente l'effetto cinematografico della voce che risuona roboante tra la plebe seduta come me, nelle quotidianità dei fatti propri beve qualcosa, parla sottovoce, gusta qualche stuzzichino, ma non può fare a meno di farsi anche gli affari di Mink de Ville che straparla, strabeve, stramangia, rigorosamento tutto col prefisso stra; si spazzola con la mano le briciole sulla camicia, si concentra di nuovo nella recita dell'uomo di successo per la platea di noi avventori sfigati. Il barista occupato con il giochino pippirippipì / pirippippì del Samsung Galaxy a 3 che lo fa disperare si fa scappare un porco qua / un porco là in cinese. Mink de Ville esperto in relazioni del cazzo nonostante il disinteresse del barista a starlo a sentire, non molla la presa: è uno stoico liberista di se stesso nel mercato libero da cazzaro. Ne ha talmente tante da dire che s'incolla al banco con la postura di chi non si fa intimidire dal silenzio, dalla vergogna, dal fuori luogo, beve una birretta ad alta voce, si guarda attorno, sguardo inornato da ratto, attacca la sinfonia madre di tutte le battaglie: snocciola gusti, le feste cui partecipa, le donne che conosce, le vetture che ha guidato, i vestiti che indossa, le cene, i locali che frequenta, donne con cui ha fatto l'amore, personaggi con cui ha confidenza culo / mutanda, un personaggio famoso con cui ha pranzato c'è un selfie che li ritrae insieme, l'ha incontrato ad un Mc Donald poi hanno mangiato parlando di affari, gli aperitivi, ecc. si spettina nervoso come a mangiarsi le unghie si riavvia la chioma dal klezmorim, senza conoscere una nota di violino nè di soul nè di musica etnica dei balcani tantomeno è ebreo askenazita, solo un super uomo del nostro tempo decadente. Un po' di tutto, niente di originale, un patch work culturale, talmente abituato a mostrasi che ignora se stesso, si identifica nelle riviste di tendenza, un po' più approfonditamente nelle trame dei film, poi su quello che è il suo proscenio da cui vede dall'alto in basso gli occasionali spettatori della sua esistenza mi scorge. Con un taccuino aperto sul tavolo, una penna tra le dita, indosso la maschera Anonymous di Guy Fawkes.