sabato 8 febbraio 2014

duecentosessant'uno

 - Fryederik Issa Raman -

sfodera un look antico e stralunato, con un qualcosa di recente per esempio: il foulard blu cobalto legato a metafora d'un impiccagione; il quale avvolto al collo, gli stagna veleggiando morbido disarcionandosi nei cromatismi presso il volto che sorride dentro la barba folta discendente; e lo inquadri meglio: è Fryederik. Non ci vediamo da tempo e quando capita, lo trovo sempre logorroico, di natura ilare depressiva; scoprendosi in tal modo, dopo due o tre viaggi mentali che egli deve aver fatto in solitario qualche istante prima al momento in cui lo incontro; dove sfodera in avanguardia, quella sua garbata forma di cinismo alla melassa per ogni aspetto della vita che lo riguardi; masticata, elaborata, rielaborata, e distillata in frasi brevi divenuti slogan acidi in una toccata e fuga; senza cercare il significato di ciò che si è detto, per non morire di li a poco; e nel flusso costantemente teso Fryederik  apre il forziere dei propri istanti, raccogliendoli nel dialogare con l'accento più forbito che può, modulando la voce pacata esattamente nuova di naftalina; uscita dai meandri delle interiora più che dell'anima, con quel fiato che spinge le parole e allo stesso tempo innescando il senso, ne desiste sulla profondità: sulla caratura;  per non dover incedere nella psicanalisi; che scivolarvi dentro è un attimo fragoroso per chi non ha tempo da dedicare all'approccio umano; e Fredyerik sa che gli altri non hanno tempo di chiacchierare: si avrà tempo quando si sarà morti e stesi, pensa Fryederik; che accetta le parole che gli si dicono, in quel seguirle dall'evenienza di svilupparsi in dramma da dover rimasticare, ripulire, affinare, ramificare, cogitare in solitario e non ad alta voce che sono operazioni introspettive delicate e Fryederik a quel punto: capitozza. Rimanendo leggero arguto e dimesso per apparire anonimo e sentirsi libero all'esterno e intricato all'interno; regolando così il proprio disagio offrendone il 30 % a chi lo incontra sul piatto di un sorriso e convenevoli sinceri e quel trenta per cento lo distilla in verve traducendo e arrotando il proprio destino; punendolo per aver scelto egli stesso: Fryederik; lo guarda estraniandosi e domandolo, anestetizzandolo, in prospettiva ebraica nonostante egli sia mussulmano. Si. Convertito dopo essere stato ateo, scettico, buddista, cristiano no, induista ci fece un pensiero, ma l'idea di essere colto da una foga mistica nel farsi rinsecchire che so un braccio restando immobile per sempre, deve averlo fatto desistere dal proposito, se mai l'avesse considerato; in ogni caso, nonostante la sua logica ferrea e ordinata, pare abbia la necessità in una di quelle ramificazioni intime e illogiche di cui sembra essere dotato, di avere un Dio da seguire; e il pantheon ad un certo punto dell'esistenza ne offriva una mezza dozzina papabili. Dunque la religiosità insistente di Fryederik ha senso nelle sofferenze altrui; commiserandone il principio, e paragonandolo al proprio; ricercando quel principio di tutte le cose: nell'anima e non da altre parti; per divenire ciò che nè presente nè passato nè futuro abbiano a ricordare; sulla lapide che aspetta ad ogni uomo prima o poi, con qualche frase doverosa di non sostanza. 
   

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