giovedì 17 ottobre 2013

centoquarantacinque

La barista con una svista è convinta. A prima vista, che io tenti la conquista. In realtà non è il mio tipo. E aspetto il caffè e la schiuma spessa un dito. E' il mio rito e il suo rossore mi crea timore, una leggera apprensione. Si sa è diffusa l'opinione il caffè è una religione e senza perizia diventa liquirizia e nei peggiori casi acqua per i vasi. Non voglio smettere di fumare. Costei è convinta che la voglia amare. Ma il caffè è una filosofia e come tale per me un'agonia. Sapore, aroma, densità, in tazza grande, in tazza fredda, lungo, macchiato corretto, ristretto, normale, se mi devo svegliare, andare al mare, o semplicemente defecare. Il caffè è un'ideologia. Diciamo una monarchia di unità nazionale e poi subito il giornale. Non c'è inno o rivoluzione che sovverta la tradizione del caffè. Mi rendo conto della situazione: sono caffeinomane per deduzione. E scruto, e osservo con discrezione, mentre la barista pensa all'incavo delle sue tettone: decolté perfetto. Le dico; avevo detto lungo, non ristretto, lascia stare. Ma non pensare a ciò che è eretto, se no il caffè, è sempre in difetto.    

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