giovedì 8 maggio 2014

trecentotredici


 - Budapest -     3 / 2001


Il treno dopo aver varcato i vari confini entra in Ungheria. I vagoni, le locomotive di questa stazione che stiamo percorrendo; laggiù inefficienti,  antiquati e in contrasto con la vivacità dei colori con cui si contraddistinguono, sono dimenticati tra i binari. Il paesaggio ha qualcosa di desolante che pare non giungere dalle cose depresse che sto vedendo e che si possono incontrare, ma direttamente dalla coscienza di ogni uomo, che di qui passa o abbia memoria di questo luogo dimenticato che non conosco; dove il tempo sotto lo sguardo di chiunque collassa su di sè non muovendosi nè avanti nè indietro. Le case che vedo sono circondate dalla staccionata in legno, umili e basse si ergono solitarie e sbilenche a volte spingendosi dal basso verso l'altro rimanendo in equilibrio sulla struttura su cui sono state ideate e costruite. La compassione mi è vicina, su questo treno mentre la velocità aumenta trattengo il ricordo di ciò che vedo tra le lacrime che non mi scendono dagli occhi fermadosi sotto la luce della patina limpida  del mio sguardo celebrale. E la campagna è selvaggia brughiera che ricorda cavalli allo stato brado che immagino se non li vedo; mentre il suono monotono del susseguirsi delle rotaie su cui il treno rotola nello scivolare assomiglia al disco roteante dell'affettatrice sul metallo. Il doganiere mi controlla i documenti e in lingua italiana mi chiede la ragione della mia visita: gli dico per turismo. Il tipo che ho di fronte nello scompartimento mi sta raccontando che si è innamorato di una ragazza di Budapest, e che sta andando a conoscere i genitori di lei. Probabilmente mi parla per sciogliere la tensione dell'incontro. Il treno quando entrerà nella ragnatela di binari prima della stazione di Budapest rallenterà e da alcune giacche sdrucide indossate da zingari compariranno le coppie di mani con cui apriranno gli sportelli dei vagoni scendendo e raggiungendo immediatamente in corsa la velocità del treno da cui scendono, per non inciampare rovinosamente tra i binari. Dal mio finestrino li vedo correre affannosamente, mentre un ragazzo in piedi nello scompartimento spiega tranquillamente ad alta voce, chi essi siano, e che cosa andrebbero incontro se la polizia ferroviaria li intercettasse all'interno della stazione, con qualcosa di trafugato a qualche turista. La stazione che vedo è enorme coperta da una sorta di visiera a conchiglia opaca in vetroresina o forse vetro; dove termina la stazione sui lati, alcune abitazioni hanno delle voragini circolari sui tetti, e una parte dei muri portanti crollati. Qualcuno asserisce che sono l'effetto dovuto ai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Tra una decina di anni leggerò un romanzo d'uno scrittore semita  a proposito della condizione della comunità ebrea a Budapest durante la deportazione. A quella lettura associerò l'immagine sempre; che avevo veduto al mio entrare col treno in stazione a Budapest. Voragini circolari sui tetti di alcune abitazioni e muri crollati. Il rumore degli scambi ferroviari; il sussulto repentino del vagone che cambia direzione. Tengo in grembo lo zaino che ho con me. Stanco guardo dai finestrini i binari e penso agli zingari che correvano lungo i binari; effettivamente ho la percezione che qualcuno di loro abbia tentato di trafugarmi lo zaino mentre mi ero appisolato. Sedutosi quasi di fronte; si era avvicinato conquistandosi strategicamente centimetri vedendomi sonnecchiare abbracciato allo zaino in grembo; poi ad un certo punto apro gli occhi, non c'era più. Il binario dove si ferma il treno è centrale e in stazione rimbomba l'eco impastato che ne annuncia l'arrivo. Apro il finestrino: vedo il ragazzo che immediatamente scende incontrando delle persone sorridenti e una ragazza che lo bacia. Prima che svanisca tra la calca di persone che scendono dalle carrozze del treno; lo riconosco come quello che nello scompartimento parlandomi mi preannunciava l'incontro con i genitori della propria ragazza. Mi avvio verso l'uscita della stazione immettendomi con fastidio tra la folla, pensando un po' smarrito tra tutte quelle persone che deviano chi da una parte chi dall'altra che devo cercare una sistemazione. Scendo le scale avviandomi nel sottopassaggio dove si può prendere la metropolitana. La miseria che vedo non è manifesta e non si focalizza nettamente come la desolazione che avevo percepito in treno al mio oltrepassare il confine. E' più tollerabile nella sua consuetudine mescolata in ciascuno dignitosamente che pare eccezione che non è; in questo degrado che non è; salvato dal decoro e dall'umiltà del sapere: il quale tutto mitiga con l'ausilio della città che nell'imporsi intelligentemente maestosa si sviluppa quando si esce dal pesante vortice di persone che gravitano in stazione. E uscito ritrovo gli occhi nuovi presso il centro della città con il viso illuminato dal tiepido sole. Dove i tram colmi di persone tranquille e indaffarate nei loro pensieri si muovono attraversandola. Non caotica, piuttosto effervescente, sebbene a quest'ora del mattino solo il sole da cui mi sento riscaldato proponga l'effervescenza che percepisco, mentre le persone ancora sonnolenti nelle menti indirizzano il proprio corpo nell'abitudinaria destinazione. Il tram alla fermata: di là c'è la metropolitana, di là il Danubio scorre possente sotto i ponti che l'attraversano. Scendo in Vaci utca: mi fermo a fare colazione.                                 

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