martedì 11 luglio 2017

cinquecent'otto




 - Melting pot -

Percorro la cornice della rosa le spine le riempio di note musicali. Non ho mai aspirato al respiro delle deformità, si amplia sino a raggiungere il confine del mefitico. Il nevischio nella tormenta si dibatte nella bottiglia al sole. Sul tavolo di pizzo il freddo. Sono l'uomo irraggiungibile di cui la storia non parla, l'uomo dalla retta imperfetta come una viscida didascalia, un tralcio tra i raggi brillanti di un'epoca. Vinco l'ibis sacro che svetta sul comignolo del tetto. Se la piazza dal cuore infiammato s'apre a ventagli spirituali la Cattedrale s'adombra di fisicità luce che s'impone nei corpi di noi commensali. Programmiamo a file interminabili di cappotti, in cui ci reggiamo impiccati sulla croce temporale, maniche flosce di vicende che primeggiano su centinaia di cubi di porfido. Chi abbaia nello spirito pragmatico da locusta non presta  attenzione ai piedi in cui deambula, non ode il vento che piega le ragioni, nemmeno dall'altura la vetta che compare dal freddo. Insorge catapulta sino al basso alluce passando per il malleolo stanziale. Per legarsi al Dio migliore il cuoio nelle scarpe è il colpo da biliardo esatto, Akon canta una canzone reggae, la radio dal portico lungo, il tridimensionale disegno riproduce il quarto d'osteria. La cinese che serve in osteria mi saluta con un ciao privo di toni lungo come una settimana di lavoro sottopagata. Chi apre il quotidiano ali di carta legge la carcassa sanguinante d'un bove. La donna col passeggino si ferma. L'elefante della memoria con la proboscide allunga l'asciugamano. Il folle con i calzoni gialli e la camicia rosso fiammante ride alla statua. La melodia della neolingua soprassiede al velo turchese. Al tabacchino non danno il resto di caramelle. Il combattimento dell'amore nel riprincipio declama, ci siamo amati d'una bellezza di cui ne valeva la pena, mio Dio quanto è lunga questa pena. Penso ci ripenso; noi che rammendiamo reti ritinteggiamo lo scafo in controluce entrambi imbrattati di pece nera. La sera poi la notte, lo sguardo del mattino. Il fanciullo dipinge a guazzo la facciata della casa a Madonna che invochiamo: e rivestiti da lenzuola di yuta riponiamo i nostri mesti sentimenti. Ristrutturo il passato per evocare la pace. Come non capire che la fortuna per noi è l'intensità in ogni ruolo, il resto frattaglie prive di compassione. Dalla finestra la donna scorge il gatto annoiato, passa in rassegna le teste degli umani da lassù, sorveglia ogni roditore che saltella e s'infila nella fogna. La via del centro storico contiene nell'umidità l'ombra dell'intera mattina. Sul tavolaccio il taglio del sole è lama mobile con cui divide il chiaro lo scuro. La scalea da cui scende l'apostrofo del castello ha nelle braccia le penne di un color smeraldo e il suono interiore d'una molecola intonata d'eleganza. Il tizio magro nei suoi anni indossa la camicia bianca nell'ovale del volto i baffi, il gilet scuro, il cappotto abbottonato, la bombetta in capo, distratto volge lo sguardo alla sua destra / sinistra di nuovo destra; con agilità compostezza supera la coppia di aritocratici dinnanzi a lui che lentamente scendono al centro della scalea, alza lo sguardo controlla l'ora all'orologio del campanile supera il generale a cavallo al centro della piazza il quale indica la direzione al passato al presente al futuro di cui siamo ignari, tra banchi e tende del mercato scompare. Nel suo passare l'aria dell'ottocento. Dal terrazzo della sinagoga la vista su tutta la piazza. L'uomo dai tetti del portico del grano scatta una fotografia con il banco ottico sul treppiede la tendina scura in cui c'ifila la testa prima del click è nera. Scatta la foto ad Anne Sexton elegante sensuale con le gambe incrociate con Spike Lee negro pieno di ciondoli e un ebreo con la stella tatuata sul braccio, seduti davanti il bar teatro discutono d'inquadrature / poesia confessionale / di rune. Con lo zodiaco dalla sera alla mattina l'estate di Mounsieur Hulot in bicicletta cappello di paglia piccolo per la testa la margherita in bocca si prodiga di sguardi mentre illumina la città sonnecchiosa e pedala per corso Roma. Un banchetto di fronte al comune vende i quadri di un giovane Hitler: nessuno sa che è un affare. Il folle dai calzoni gialli la camicia rossa, si avvicina alla virago vestita in nero, la quale si sente preda lusingata. Cammina sotto i lampioni spenti e pensa: nessun giorno per gli uomini è passato invano al senso tragico dell'esistere. Di luce futurista il brillio che intravedo nel tunnel della pace. Incrocio un ragazzo dall'eccesiva ingiustizia nei tempi che verranno amplia al confine dello scibile lo sgorgare dell'uomo percolato, di cui la storia parla in retta traspare docile. Rivedo un amico di vecchia data ci vediamo ad occhi di distanza sul parlare di un passato remoto. Ordino qualcosa da bere prima di mangiare ci sediamo a tavolino sotto il portico dove tutti passano e vedono. Discutiamo della capacità teconologica di fermare il tempo biologico di ognuno attraverso un'app. dell'orologio della Swach. E ci mettiamo a ridere a crepapelle sulla prima pelle dell'edonismo Reganiano ridicolo come un filosofo clown. Dell'entrata a piedi pari della vecchiezza di ogni maitre a pènser nella nostra mostruosa società divenuti piuttosto maitre a mangèr a bighellonare tra un salotto e l'altro prima di ogni risibile pardon, pietosa, angosciante, bestiale, orribile, strage. Ci mettiamo a ridere a crepapelle. Il mio amico con la barba bianca da uomo di mezza età mi fa sapere che secondo il volgo chi guadagna al di sopra dei 50.000 euro vive pluri-verità presunte, chi vive con meno di quella cifra vive d'una verità assoluta, un'onda d'urto che travolge chiunque. La culla della civiltà lo sa.

      


   

  

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